Dopo quasi 12 mesi di tensioni più o meno concrete, Il Cairo e Roma concordano su un punto: riallacciare al più presto le normali relazioni diplomatiche, seppur mai seriamente danneggiate dalla brutale morte di Giulio Regeni, torturato per giorni e lasciato con il collo spezzato in un fosso lungo la superstrada Il Cairo-Alessandria.

Di mezzo c’è molto: l’arrivo di rifugiati dall’Africa subsahariana sulle coste italiane, la crisi libica in cui al-Sisi destabilizza e guarda alla Francia, le commesse economiche, la vendita di armi e tecnologie militari. Non che gli scambi si siano ridotti dopo il ritrovamento del cadavere di Giulio, ma l’assenza dell’ambasciatore – boccone per un’opinione pubblica italiana che insiste nel chiedere verità– costringe a mantenere ufficialmente un minimo di gelo diplomatico.

Dall’altra parte del Mediterraneo c’è un paese piegato dalla crisi economica, costretto a rispettare diligentemente i diktat di Banca Mondiale e Fmi (e prima quelli dell’Arabia Saudita), in cui i primi segnali di rabbia cominciano ad esplodere. Di Giulio non si parla più: se fu abbracciato dagli egiziani come uno di loro, se fu visto come un modo per mostrare al mondo il volto del regime golpista, la disarmante assenza di sanzioni nei confronti della macchina repressiva di al-Sisi ha ucciso ogni speranza.

«Il livello di attenzione del pubblico egiziano è bassissimo, ormai il caso è finito in un angolo. Solo negli ambienti di sinistra, tra gli attivisti e le associazioni per i diritti umani se ne parla. C’è la crisi economica, la gente è frustrata e si sente abbandonata», ci dice un attivista egiziano che chiede di restare anonimo.

«Indicative sono le stesse dichiarazioni di Abdallah sulla collaborazione con la polizia. I giornali hanno riportato le rivelazioni della procura egiziana a quella italiana: era un collaboratore. Forse non ha avuto altra scelta che ammetterlo. Oppure si sente protetto: in Egitto governo e media filo-governativi parlano quotidianamente di complotti stranieri per indebolire il paese. In questo contesto di xenofobia e sciovinismo, la gente può dire tranquillamente di collaborare con la polizia per proteggere il paese dalla cospirazione».

L’impressione, al Cairo, è che si prepari il terreno per una verità di comodo: falliti i tentativi di insabbiamento, i vertici egiziani offrono qualche poliziotto e un sindacalista come menti e braccia dell’omicidio. «Le autorità italiane hanno le loro fonti di informazioni e non hanno mai accettato la versione egiziana – continua l’attivista – Questo ha costretto Il Cairo ad ammettere che si possa essere trattato di un atto interno alla polizia: dare la responsabilità a dei singoli poliziotti salva i vertici dalla responsabilità politica. Ma c’è un elemento in più di cui i media di Stato non parlano: i cinque egiziani uccisi per accusarli della morte di Giulio. Ormai è dato per assodato da attivisti e opposizioni che si sia trattato di una montatura per coprire la verità».

E quella montatura non è attribuibile a poche mele marce. Ma tant’è, al Cairo non sembra prevalere la preoccupazione: l’opinione pubblica è impegnata con altri problemi e l’Europa non ha mai mostrato interesse a fare pressioni reali. L’Italia si è accodata.