Di sostanza ce ne è poca, ma nessuno ci sperava e nessuno se ne dispiace. Quel che conta, nell’incontro romano tra Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni, è solo l’operazione diplomatica: da quel punto di vista a palazzo Chigi si fregano le mani. Sarebbe così persino se le due presidenti avessero speso l’ora e un quarto di colloquio per chiacchierare di cinema e libri.
Il gesto rilevante è la visita in sé: “Qualcuno se lo sarebbe aspettato a novembre?”, chiede retoricamente Raffaele Fitto, unico ministro presente all’incontro in quanto responsabile degli Affari europei ma soprattutto dell’attuazione del Pnrr, il piatto più forte nel menù dell’incontro. “Un piacere incontrare Giorgia Meloni oggi”, cinguetta l’Europea e ha i suoi buoni motivi, anche personali, per compiacersi sinceramente del disgelo. La scadenza del mandato non è vicinissima ma neppure lontana.

L’intesa tra Ppe e Conservatori sul suo nome le spianerebbe la strada della riconferma e oggi nel continente nessuno pesa più della premier italiana tra i conservatori. Naturalmente l’olio che permette all’incontro di scivolare liscio più di come non si può è un altro, forse l’unico capitolo che ha uno spessore operativo. E’ l’Ucraina e, alla vigilia della dichiarazione congiunta Ue-Nato in materia, la conferma di una fermissima posizione atlantista dell’Italia, grazie a Giorgia e nonostante i soliti sospetti, Salvini e Berlusconi, ha tutto il suo peso.

La voce davvero delicata è il Pnrr e da questo punto di vista, almeno in apparenza, l’Italia non ha ottenuto niente. “E’ una trattativa”, chiosano enunciando l’ovvio dagli spalti del governo. La premier e il ministro Fitto “confermano l’impegno del governo” nel rispettare gli impegni, 149 obiettivi da raggiungere entro il 2023 per accedere a una tranche di 38 mld. La presidente della Commissione raccomanda caldamente che il Piano “vada avanti bene”.

Nelle stesse ore e nella stessa città la medesima esortazione arriva dal presidente dell’Eurogruppo Donohoe, rivolto all’ospite Giorgetti: “E’ il solo strumento per la ripresa”.

In realtà tutti si rendono perfettamente conto dell’impossibilità di rispettare il Piano preparato da Draghi quando ancora l’Ucraina non era invasa e ci si poteva illudere che il rialzo dei prezzi dell’energia fosse una fiammata effimera. La cordialità ostentata ieri ha un significato concreto e preciso.

La commissione è disposta a ridiscutere la governance disegnata da Draghi e a transigere su ciò che giustamente Meloni ha indicato come la vera impresa improba: la fase operativa, l’implementazione dei progetti, la messa in pratica. Non sulle riforme però, perché lì non si possono addurre ad alibi le difficoltà oggettive create dal rincaro delle materie prime e dalle conseguenze di queste ultime sugli appalti e sulle gare d’appalto. Lì tutto dipende dalla tenuta politica della maggioranza, dalla sua compattezza. Ma quanto la Commissione si rivelerà elastica anche dove è disposta a discutere, nella fase operativa, è ancora tutto da vedersi. Trattativa appunto, ma che parte almeno con le migliori intenzioni.

Anche un capitolo meno vistoso ma decisivo come la creazione del Fondo sovrano europeo per sostenere le imprese europee minacciate dal piano americano di supporto alle imprese Usa per contrastare l’inflazione registra piena condivisione di vedute, almeno sui titoli. Ma ieri ci si limitava a quelli e del resto persino sull’immigrazione, il fronte che a novembre aveva reso i rapporti pessimi, il clima appare oggi molto più disteso. Se e quanto i sorrisoni di ieri si tradurranno in effettive intese lo si vedrà solo nei prossimi mesi. Ma per Giorgia l’incontro di ieri è comunque un successo.

Conferma che è su di lei che con sempre maggiore convinzione puntano gli establishment italiano ed europeo come leader capace di domare le spinte “populiste” e non del tutto allineate. Nella sua coalizione e nell’intero Paese.