Succede spesso che, una volta decedute, le trans vengano private della loro identità ed è quello che accade ad Antonia. Le amiche si riuniscono per rievocare il suo spirito, nel tentativo di ridarle la sua femminilità negata. «La verità… Noi, tra il delirio e il dramma, abbiamo sempre scelto lo spettacolo», così si presenta Le favolose, l’ultimo film di Roberta Torre che ha aperto le Notti Veneziane delle Giornate degli Autori in accordo con Isola Edipo, e che uscirà in sala come evento speciale il 5, il 6 e il 7 settembre (distribuito da Europictures). Sette le protagoniste (più una): Porpora Marcasciano, Nicole De Leo, Sofia Mehiel, Veet Sandeh, Mizia Ciulini, Massimina Lizzeri, Mina Serrano e Antonia Iaia. A raccontarci questa «favola favolosa» è la stessa regista, già vincitrice del David di Donatello come miglior regista esordiente per Tano da morire (1997) e autrice di Sud Side Stori (2000), Angela (2002), Mare nero (2006), I baci mai dati (2011), Riccardo va all’inferno (2017).

Roberta, com’è nata l’idea di «Le favolose»?
Ho iniziato a lavorarci leggendo i libri di Porpora Marcasciano, poi con Cristian Ceresoli abbiamo fatto una prima stesura delle storie raccontate dai libri di Porpora, appunto. In un secondo momento ho scritto una sceneggiatura in cui si sviluppa questa sorta di rapimento identitario nel momento della morte, che poi è diventato il filo conduttore di tutto il film. Invece i singoli racconti delle protagoniste sono proprio i loro. Abbiamo lavorato perlopiù su un canovaccio d’improvvisazione. In fase di montaggio, poi, ho mescolato tutto. Alla fine il vero lavoro di scrittura è stato fatto in fase di editing.

Le protagoniste, estremamente variopinte – ognuna possiede un proprio vissuto, un proprio spazio nel mondo –, sono molto affiatate; si respira, insomma, la loro complicità. Come sei riuscita a creare quest’alchimia armonica nel gruppo?
La base di partenza è stata una sorta di casting organizzato con Porpora. A parte Nicole De Leo, che con lei ha un’amicizia storica, tutte le altre le aveva conosciute lungo gli anni attraverso varie situazioni. Chiaramente, però, Porpora le ha scelte anche in base alle peculiarità delle singole. Quando poi si sono trovate chiuse sul set, durante le riprese, a poco a poco sono venute fuori le differenze, le similitudini, la voglia di dialogare e di condividere assieme. Da lì è nato tutto; è stata una sorta di famiglia creatasi durante quel mese di lavorazione.

Proprio pochi giorni fa, la stessa Porpora ha denunciato un’aggressione in spiaggia da parte di cinque individui armati di coltello.
Un episodio raccapricciante che racconta ancora una volta il binomio violenza-ignoranza. Non saremo mai al sicuro finché accadranno fatti come questo. Il rispetto andrebbe insegnato a scuola come materia obbligatoria; l’educazione sentimentale dovrebbe essere introdotta come pratica fin dai primi anni scolastici; la formazione di un essere umano non può prescindere da tutto ciò.

Nonostante decenni di lotte atte a rivendicare la libertà del proprio essere, oggi certi tabù violenti ristagnano ancora nel nostro Paese. Aggiungici anche il terrore delle imminenti elezioni politiche. Questo non ti fa paura?
Più che aver paura, sono sconcertata dal fatto che ci siano ancora oggi dei diritti umani ignorati. Mi sembra così ovvio, ed è quello che racconto nel film, ovvero che la propria identità e la propria libertà debbano essere riconosciute. La mancanza di riconoscimento di un altro essere umano, e della vita che ha vissuto, la trovo una violenza inaudita. Ecco, quello che mi fa paura sono alcune persone senza capacità di comprendere una libertà da sostenere a tutti i livelli.

Veet Sandeh rivendica il suo corpo come atto politico, affermando che la libertà «ha un caro prezzo». Porpora s’interroga se tutte loro siano state davvero felici lungo la loro vita. Per Antonia, invece, la morte rappresenta la libertà. Quale potrebbe essere la definizione di «libertà», oggi?
Non penso che la libertà di oggi sia diversa rispetto a quella di ieri. La libertà, per ognuno di noi, è la possibilità di condurre una vita secondo i propri desideri, verso la felicità. Rivendico il diritto alla felicità! (ride, ndr). Un diritto che spesso si dimentica e invece dovrebbe essere il nostro punto di arrivo. Un’altra cosa fondamentale è il potere che si accanisce sui corpi, in particolare su quelli più fragili facendone scempio, facendone oggetto del proprio tornaconto. Il corpo, oggi, è diventato oggetto del potere e le protagoniste rappresentano appieno tutto questo.

Riagganciandomi a una frase di Mizia, «sono una terra di mezzo», non so se hai letto il recente botta e risposta tra Vladimir Luxuria e Natalia Aspesi su «Il venerdì» riguardo al tema del cambio di sesso.
Sappiamo tutti che oggi la situazione è molto più complessa rispetto al passato, dal punto di vista del genere, della fluidità dei rapporti… Mi porrei, però, su un piano che non travalichi queste differenze, perché quello che racconta questo film è il diritto di essere riconosciuti in punto di morte per quello che sei stato durante la tua vita, per quello che hai scelto di essere. Questo non c’entra nulla con l’appartenenza di genere e il caso specifico tra Luxuria e Aspesi va al di là di tutto questo.
Con Porpora abbiamo parlato spesso a proposito dell’operazione per cambiare sesso; molte persone hanno avuto difficoltà perché ovviamente è un percorso complicato, delicato, non è una scelta che si fa a cuor leggero. Sono viaggi che meritano rispetto e di cui bisogna predisporsi all’ascolto.

In Italia, si sa, le registe lamentano senza mai averlo nascosto un tremendo ostruzionismo del sistema. Tu, però, sei un esempio positivo.
Rassicurante, diciamo (ride, ndr). Be’ sì, avendo diretto otto film ho lavorato parecchio in questa direzione. Tieni però conto che il mio primo lungometraggio è del 1997 (Tano da morire, ndr) ed erano tempi di libertà «anarchica» maggiore da un certo punto di vista.
Ho avuto anche la fortuna di lavorare in un luogo come Palermo, che non possedeva nulla delle «situazioni» produttive canoniche perché era, come dire, un contesto quasi di frontiera. Poi ho avuto anche la fortuna di trovare compagni di viaggio coi quali divertirmi e realizzare progetti. Adesso c’è un’apparente apertura a figure femminili, ma spesso in ruoli non apicali. Magari si allarga il margine ma non si arriva al punto: ci devono essere più registe, più direttrici della fotografia, più ruoli decisionali ai vertici. Ma non perché ritenga che tutti i film diretti da donne potrebbero essere dei capolavori, quello che voglio dire è che non c’è la stessa forbice di possibilità che viene data ai colleghi uomini.

Cosa puoi anticipare su «Mi fanno male i capelli», tuo prossimo film il cui titolo rimanda inevitabilmente alla Monica Vitti di «Deserto rosso»?
Siamo in fase di montaggio, il lavoro è ancora lungo però penso che entro fine anno sarà a buon punto. È la storia di una donna che perde la memoria, interpretata da Alba Rohrwacher, e s’identifica nei personaggi dei film di Vitti; non solo Antonioni ma anche Dramma della gelosia, le commedie con Sordi…

Sei riuscita a conoscerla prima della sua scomparsa?
No, purtroppo. Ma sono stata fortunata nell’averla conosciuta sullo schermo e questo sogno rimarrà per sempre.