Sono morti due bimbi di nove e tredici anni negli ultimi giorni in Iran, nell’anniversario delle proteste del novembre 2019, innescate dall’aumento improvviso del prezzo del carburante. Tre anni fa, le autorità avevano spento internet e centinaia di manifestanti erano stati uccisi. Martedì e mercoledì scorso decine di città iraniane sono state teatro di proteste e scioperi. I due bambini sono stati uccisi nella località di Izeh, nella provincia del Khuzestan (sudovest) ricca di petrolio. Delle fonti vicine alla famiglia del più piccolo dei due bimbi hanno riferito a Bbc Persian che a sparare sono state le forze di sicurezza.

Oltre a loro, sono morti cinque adulti e altri nove sono rimasti feriti, di cui due in condizioni critiche. Le autorità hanno dichiarato che a colpirli sarebbero stati presunti «terroristi»: a bordo di una motocicletta, avrebbero sparato sulla folla al mercato con un fucile d’assalto. Il capo della magistratura locale ha reso noto che tre individui sono stati arrestati.

IN QUESTI DUE MESI la Repubblica islamica «ha messo in atto una violenta repressione delle manifestazioni di piazza che sta accrescendo una sempre più evidente perdita di legittimità», osserva Giorgia Perletta, assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna. «I manifestanti non chiedono riforme, come nelle passate mobilitazioni dal basso, ma un cambiamento ai vertici del sistema politico. Le autorità sono invece sempre meno inclini al compromesso e sempre più arroccate sui fondamenti ideologici, tra cui il velo obbligatorio. Il crescente divario tra i giovani e gli apparati politico-militari potrebbe inasprire lo scontro sia a danno dei primi, oggi fortemente repressi, ma anche dei secondi, che si trovano a governare su una popolazione molto distaccata e disillusa dai paradigmi politico-culturali riproposti da ormai 43 anni».

Quelle di oggi sono proteste che nascono da un malcontento diffuso a più livelli della società, e che uniscono uomini e donne, diverse generazioni e ceti sociali. Secondo Perletta «non siamo però ancora davanti a una rivoluzione. In prima linea in questo movimento di protesta, le giovani donne non sono infatti sostenute da certi gruppi socioeconomici e politici, fondamentali affinché possa verificarsi un capovolgimento rivoluzionario. Mi riferisco soprattutto ai commercianti, ai lavoratori delle industrie e del settore petrolchimico: nonostante modesti e limitati segnali di sostegno alle proteste, non vi hanno aderito in modo trasversale».

AUTRICE del volume Political Radicalism in Iran and Ahmadinejad’s Presidencies (Palgrave 2022), Perletta osserva come allo scoppio delle proteste, l’ex presidente (2005-2013) Mahmud Ahmadinejad abbia «contestato l’uso spropositato della violenza come strumento per contenere il dissenso. Ahmadinejad guida da anni una “corrente dei devianti” che cerca di minare il potere dell’establishment. Estromesso dal sistema, ha fatto più volte ricorso al populismo per raccogliere un modesto gruppo di seguaci critici nei confronti della Guida Suprema e della magistratura, sua longa manus. La sua figura, tuttavia, è invisa alla popolazione che non lo ritiene un leader credibile, ma anzi contesta i suoi tentativi di riabilitarsi attraverso dubbie prese di posizione strumentali soltanto al suo improbabile ritorno in politica».

IN MERITO AGLI SCENARI possibili, Perletta dichiara: «Per quanto resiliente e resistente alla repressione massiccia, alle condizioni attuali il movimento di protesta non sembra essere nelle condizioni di innescare un processo di radicale cambiamento politico. In questa fase, è la successione dell’anziano Ali Khamenei, la Guida Suprema, a poter predisporre il terreno per un cambiamento istituzionale, non necessariamente verso direzioni più libertarie. Potrebbe infatti realizzarsi uno spostamento del potere verso le forze militari e paramilitari alla guida di una repubblica magari non più islamica, ma non per questo più democratica e inclusiva».

La studiosa si sofferma infine sulle definizioni usate dai media: «Teocrazia e repubblica degli ayatollah sono etichette fuorvianti. Il concetto di teocrazia non descrive il complesso sistema costituzionale iraniano, che vede invece una compresenza di istituzioni elettive e non elettive. Inoltre, da anni il peso specifico del potere politico si sta spostando verso gli apparati di sicurezza delle Guardie rivoluzionarie (pasdaran), mentre l’età anagrafica dei religiosi rivoluzionari sembra indicare una loro graduale eclissi dal processo decisionale».

DELLE BANDIERE monarchiche – con al centro il leone armato di spada e il sole sullo sfondo – che sventolano nelle piazze europee, Perletta conclude dicendo: «La monarchia non rappresenta un modello per gli iraniani di oggi. I Pahlavi, in esilio, sono stati troppo a lungo fuori dal paese per poterne comprendere le dinamiche, e soprattutto non sono visti né come governanti legittimi, né come attori capaci di avere sostegno popolare».