Sono in molti, a sinistra, a temere che, alle elezioni legislative e municipali che si svolgeranno oggi in El Salvador, finirà per prevalere il voto di protesta contro il governo del Fronte Farabundo Martí di Liberazione Nazionale, l’ex alleanza di organizzazioni guerrigliere divenuta partito politico dopo la firma degli accordi di pace nel 1992.

ERA IL MARZO DEL 2009 quando il piccolo Paese centroamericano, el Pulgarcito d’America reso celebre dai suoi tanti martiri ed eroi, celebrava, per la prima volta nella sua storia, la vittoria alle presidenziali di un candidato di sinistra, l’ex giornalista Mauricio Funes. Dopo una guerra civile durata 12 anni, seguita dal lungo periodo – sicuramente meno violento, ma non sempre meno tragico – del governo del partito di estrema destra Arena, nasceva allora, in mezzo a tante speranze, il primo esecutivo a guida Fmln.

L’ENTUSIASMO, tuttavia, non sarebbe durato a lungo: al di là di alcuni apprezzabili programmi sociali, il governo Funes aveva finito per lasciare sostanzialmente inalterati tanto il modello neoliberista quanto la subalternità agli Stati Uniti.

A TENTARE UNA SVOLTA a sinistra ci ha provato Salvador Sánchez Cerén, uno dei più importanti comandanti dell’ex guerriglia, eletto presidente nel 2014. Ma dal fronte di guerra al palazzo presidenziale, la strada non si è certo rivelata in discesa. E il fatto che gli ultimi sondaggi diano Arena (l’Alianza Republicana Nacionalista) in vantaggio sul Fmln non può che indicare un certo scontento della popolazione nei confronti dell’attuale amministrazione.

Di attenuanti il presidente può invocarne parecchie, avendo dovuto governare sotto l’assedio congiunto, e brutale, dei mezzi di comunicazione, della Corte Suprema di Giustizia, dell’élite economica e delle misure destabilizzatrici di un parlamento in mano alla destra.

ED È SENZ’ALTRO un punto a suo favore essere riuscito, malgrado ciò, a garantire massicci investimenti sociali.

Ma tutto ciò non può far dimenticare i cedimenti al modello neoliberista, l’adozione di misure di austerità fiscale, l’impulso al sistema pensionistico privato, un certo scollamento – comune del resto a molti dei governi progressisti latinoamericani – dai movimenti popolari. A mettere in guardia la popolazione dal voto di protesta è l’Asociación de Radios y Programas Participativos, ponendo l’accento sulle terribili conseguenze di una vittoria di Arena, in termini di smantellamento dei programmi sociali, privatizzazione dell’acqua, eliminazione dei sussidi alle famiglie povere, congelamento dei salari, aumento dell’età pensionistica. Con un «voto di castigo», non c’è da dubitare – Argentina docet – che il popolo finirebbe per castigare soprattutto se stesso.