«L’amministrazione Biden è convinta di riuscire a rimpatriare i propri cittadini dall’Afghanistan e a evacuare chiunque altro reputato necessario entro il termine del 31 agosto. A questo fine sta cercando di ridurre i tempi di volo, grazie all’appoggio dei paesi della regione, in modo da aumentare l’efficacia del ponte aereo moltiplicando la frequenza dei voli. In questo quadro spicca la recente dichiarazione del ministro degli Esteri francese Le Drian, secondo cui la scadenza del 31 agosto è invece fonte di preoccupazione, segnale del profondo divario che in questo momento separa gli Stati uniti dai vecchi alleati europei».

Così commenta il politologo Lucio Martino, membro del Guarini Institute della John Cabot University di Roma. Residente negli States da anni, Martino è un attento osservatore delle questioni interne americane.

Il caos di questi giorni è dovuto al ritiro degli americani deciso da ultimo dal presidente democratico Joe Biden, ma già previsto dall’accordo di Doha tra l’ex presidente repubblicano Donald Trump e i vertici dei Talebani, accordo bilaterale del 29 febbraio 2020.

«Sono già tre i cicli elettorali il cui esito è pesantemente condizionato dalla promessa del ritiro statunitense dalle guerre mediorientali. L’affermazione di Barak Obama nel 2008 si deve in buona parte proprio alla sua intenzione di porre fine alla presenza militare statunitense in Afghanistan e in Iraq. Una posizione, questa di Obama, a suo tempo espressa in netta contrapposizione con quella del suo rivale diretto, John McCain, secondo cui i militari statunitensi sarebbero invece dovuti restare in Medio Oriente a tempo indeterminato».

«Sulla falsariga di quanto fatto dall’amministrazione Nixon quarant’anni prima in Vietnam, l’amministrazione Obama aveva quindi inaugurato un processo di “afghanizzazione” del conflitto. In altri termini, a partire dal 2014 le truppe statunitensi hanno avuto solo il compito di formare e sostenere le nuove forze armate afgane, destinate ad assumersi la piena responsabilità della stabilizzazione del loro paese. Con l’accordo di Doha, l’amministrazione Trump non ha fatto altro che inserirsi in un processo cercando di chiuderlo con successo».

Biden ha mandato a monte diverse iniziative del predecessore. Secondo l’analista Lucio Martino, «da un punto di vista formale, per l’amministrazione Biden sfilarsi dall’accordo di Doha sarebbe stato più facile di quanto non lo sia stato rientrare negli accordi di Parigi sul clima, oppure rinegoziare il programma nucleare con i vertici di Teheran. Questo perché già a fine gennaio 2021 era evidente che le condizioni fissate per il ritiro delle truppe statunitensi erano venute meno: i Talebani non avevano rispettato i patti, ovvero non avevano rinnegato al-Qaeda e non si erano impegnati in una trattativa diretta con il governo di Kabul. Di fatto, i presupposti dell’accordo erano venuti meno».

«Inoltre, a fronte del prospettato ritiro dei rimanenti 2.500 soldati statunitensi, l’accordo di Doha prevedeva un sostegno continuativo del nuovo esercito afghano, tutto a spese del contribuente americano. Secondo l’amministrazione Trump, da effettuarsi non più attraverso l’impiego delle forze armate regolari ma con l’impiego di 16mila contractors civili che in stragrande maggioranza non sarebbero stati cittadini americani».

Mantenendo fede all’accordo di Doha voluto da Trump, Biden «persegue al tempo stesso, con determinazione, le proprie priorità di politica estera. Anche in campagna elettorale, Biden ha sempre ribadito come il radicalismo islamico non rappresenti più una minaccia per gli Stati uniti. Di conseguenza, ogni risorsa dev’essere impegnata per contrastare il cambiamento climatico, il suprematismo bianco e il confronto con la Cina. In questo quadro, l’Afghanistan diventa irrilevante».

Resta il dramma dei profughi e, soprattutto, di chi resta bloccato sotto il dominio talebano. Ospite di Controcorrente, lunedì sera l’ex ministro alla Difesa Ignazio La Russa ha ipotizzato che «Washington debba farsi carico dell’85% dei profughi afghani, perché quella è stata la percentuale di impegno sul campo delle forze armate statunitensi».

A questo proposito, Martino fa notare come, dopotutto, «dall’inizio dell’anno l’amministrazione Biden non si sia opposta all’ingresso negli Usa di circa due milioni di persone attraverso il confine con il Messico, qualche centinaia di migliaia di afghani non cambierebbero la situazione».