È mirabolante il tipo di dibattito che si svolge sulla riforma del Senato. Ad una valutazione fortemente e motivatamente critica sugli esiti derivanti dal testo in discussione, qualora fosse approvato tal quale, si risponde non discutendo tale valutazione, ma opponendole plateali incongruità. Che vanno dalla disciplina di partito, alla tenuta della maggioranza di governo, allo scioglimento anticipato del Parlamento, il cui potere, peraltro, non spetta al Presidente del Consiglio. A queste manifestazioni di mera tracotanza si aggiungono però, a difesa del disegno governativo, due argomentazioni che richiedono specifiche repliche. Una è quella della intangibilità fattuale delle deliberazioni già adottate, intangibilità che deriverebbe dall’obbligo (non certo giuridico e non si sa di quale tipo) di riapprovarle così come sono per cogliere … l’irripetibile occasione storica rappresentata da Matteo Renzi. L’altra è quella della volontà popolare che lo stesso Renzi interpreterebbe, certo non per mandato elettivo, visto che alle elezione del 2013 non era neanche candidato, quindi per carisma naturale o … divinamente infuso.

La tesi della intangibilità fattuale sembrerebbe basarsi sulla persuasione che il dibattito trentennale sulle riforme istituzionali avrebbe da tempo prodotto un’amplissima concordanza sui contenuti di tali riforme. I dubbi sul voto a favore del disegno di legge da parte del Senato smentiscono recisamente tale persuasione. C’è di più. La pretesa intangibilità, se si fosse affermata o si affermasse, si rivolgerebbe contro il suo obiettivo. Perché, privando di rilevanza determinativa la seconda delle deliberazioni di ciascuna Camera, dissolverebbe la ratio del procedimento. Ratio che impone, con la seconda delle due intervallate deliberazioni, l’obbligo di riesaminare gli effetti sistematici del contenuto della prima deliberazione per accertarne la virtuosità, l’adeguatezza o la perversità. E, in queste due ultime ipotesi, se l’insufficiente o la deprecabile efficacia della prima deliberazione sia emendabile intervenendo sul testo approvato o sia invece tale da imporre la reiezione espressa o tacita del progetto di riforma. L’intangibilità fattuale, una volta accertata, verrebbe a configurare l’incostituzionalità della legge di revisione per vizio in procedendo.

L’affermazione della corrispondenza delle riforme istituzionali che Renzi sta imponendo alla volontà popolare è falsa. La volontà popolare, certa ed incontrovertibile, fu manifestata dal corpo elettorale col referendum del 26 di giugno di 9 anni fa, quando la stragrande maggioranza delle elettrici e degli elettori respinse la legge costituzionale mirante all’instaurazione del «premierato assoluto». Quando cioè, per la prima volta nella storia delle costituzioni e degli stati, il popolo italiano volle riconfermare la Costituzione approvata 58 anni prima e, specificamente, la forma di governo che la qualificava, quella parlamentare. La cancellazione di questa decisione del popolo sovrano dalla memoria della Nazione, questa sorta di abrogazione tacita e illegittima degli effetti di un referendum costituzionale da chi e da quanti avrebbero dovuto garantirli, non può negarne la certezza storica. Di quella decisione popolare ne va rivendicato invece il valore e la forza. E proprio a fronte dell’eversione legale che Renzi sta compiendo, avendo riproposto e imposto il premierato assoluto a mezzo del sistema elettorale, l’italicum.

La verità del suo disegno la abbiamo rivelata più volte. È la trasformazione in senso autoritario del regime costituzionale. L’opposizione parlamentare alla riforma del Senato mira a scavare l’ultima trincea per quel che resta del costituzionalismo in Italia. L’approvazione del testo in discussione senza modifiche sul meccanismo di composizione del Senato, e senza reali contropoteri a quelli del premier ridisegnato come capo del governo dall’italicum, determinerebbe l’inarrestabile deriva autoritaria della Repubblica. La lotta al disegno di legge sul Senato è perciò lotta per le garanzie costituzionali, lotta all’italicum. È in questa legge il grimaldello che spalanca le porte all’autoritarismo. Non si tratta di temi e questioni reciprocamente indifferenti o indipendenti. La composizione di un organo costituzionale così come la trasformazione dei voti in seggi si deliberano mediante norme giuridiche che non sono mai solitarie. Esistono se, solo se ed in quanto elementi, parti di un sistema che collega ciascuna di esse a tutte le altre e, solo se insieme, possono disporre, istituire, tutelare, e obbligare secondo un principio etico-politico. Il diritto è sistema. È sistema ogni forma di governo con le sue componenti indefettibili tra cui quella che assicura la rappresentanza con una strutturazione unitaria o duale. Una dualità che si giustifica non soltanto se è diversificata la fonte della rappresentanza di ciascuno i dei due rami del Parlamento ma se la loro distinzione si pone come strumento di garanzia dei principi dell’ordinamento.

Chi scrive ha sostenuto in tempi lontani l’assenza di una base razionale che giustificasse il bicameralismo sancito in Costituzione. Ebbe anche modo, nel 1985, di proporre una legge costituzionale che sostituiva il monocameralismo al bipolarismo. Si era in altra, enormemente diversa stagione della storia istituzionale italiana. I partiti erano tali e di massa, non degradati a comitati elettorali. Vigeva il sistema elettorale proporzionale che poneva all’interno stesso della rappresentanza i contrappesi di garanzia della democrazia politica descritta e prescritta in Costituzione. Quella funzione di garanzia che nel testo della riforma costituzionale in discussione manca del tutto. Ad assumerla potrebbe essere quindi un Senato eletto direttamente dal corpo elettorale e provvisto dei mezzi adeguati per esercitarla. Mezzi come la partecipazione eguale alla legislazione in materia di diritti e sull’ordinamento dello stato e come il ricorso diretto alla Corte costituzionale in caso di conflitto con la Camera dei deputati su quelle materie. Il bicameralismo italiano acquisterebbe così un fondamento razionale.