La pandemia da Covid 19 ha dimostrato la centralità del lavoro fisico e intellettuale, digitale e di cura; la concreta e ricca produzione del valore prodotto dalle «reti umane» che muovono le catene di fornitura globali; l’interconnessione di mansioni, capacità e facoltà intermediate dagli algoritmi e dalle piattaforme di proprietà privata che estraggono il plusvalore dall’esercizio quotidiano di una forza lavoro che non godrà mai, allo stato attuale, della ricchezza prodotta dalla sua cooperazione. Rider, braccianti, addetti alle pulizie, collaboratrici domestiche, badanti, operai nelle fabbriche e della logistica, addetti alle vendite nei supermercati, giornalisti e edicolanti, docenti e studenti costretti nelle stanze virtuali delle piattaforme che producono record di utili in borsa per i loro azionisti.

La segregazione di miliardi di persone è diventata la fortuna di un pugno di aziende, già note come Amazon che sta assumendo 175 mila persone in tutto il mondo, Zoom o Hungout (Google). In questa nuova divisione del lavoro stiamo inoltre sperimentando una nuova stratificazione sociale in una società di classe auto-isolata: tanto più crescono coloro che producono merci materiali, digitali e affettive, trasportandole nella fabbrica, negli ospedali, nei supermercati o nelle case dagli schermi, tanto meno si riconoscono i diritti e le tutele della forza lavoro invisibilizzata. Tanto più cresce un esercito di lavoratori che operano nei magazzini e nelle strade temendo di essere contaminati dal coronavirus, tanto meno si parla di proteggere i loro diritti, anche in caso di intermittenza lavorativa e disoccupazione, o come remunerazione per le attività di riproduzione e protezione della vita propria e altrui.

Questo è il momento della forza lavoro «just-in-time» digitale, ma non dell’idea di una negoziazione e regolazione delle tutele e dei diritti.Le immagini dei rider in attesa della metropolitana a Milano nella sera di Pasqua sono l’esempio di una violenza sociale inaudita. A parte i diretti interessati, e le realtà auto-organizzate di Milano, Bologna o Roma, nessuno ha ancora pensato di riconoscere la piena tutela a questi lavoratori, in un momento in cui i governi varano norme per qualsiasi aspetto della vita. Si preferisce normare gli affetti in una minacciosa profilassi paternalista e poliziesca e non ammettere che nulla in questa società coatta funziona senza gli invisibili. Non sono invisibili, ma sono utili quando portano un sushi, una birra o un Kinder Bueno a casa, vero? La ferocia classista di questa condizione dovrebbe finalmente interrogare il consumatore trattato come «Re» da cinici imprenditori del digitale e da una ipocrita politica subalterna.

Nel «dopo» pandemia, nella «fase due» che non arriverà se non tra uno o due anni con un vaccino, il «distanziamento sociale» può comportare una nuova ondata di precarizzazione in nome della «produttività» mentre vivremo la più dura delle recessioni. Se volessimo osservare la nuova cittadinanza virale dal punto di vista di chi ha perso il lavoro, o da quello di chi già non ne aveva uno nel perimetro del lavoro salariato capitalista, la situazione sarà peggiore. Per la fondazione dei consulenti del lavoro la sospensione, anche se temporanea, delle attività produttive ha, fra le altre cose, causato per 3,7 milioni di lavoratori il venir meno dell’unica fonte di reddito familiare. In questo collasso economico dovrebbero venire prima la vita, la forza lavoro e una riforma universalistica del Welfare a partire da un reddito di base incondizionato, pagato anche dai capitalisti digitali per tutti coloro che continueranno a lavorare per loro sempre di più e sempre peggio.