Ho letto con interesse l’articolo dell’avvocato Alessandro Brunetti (il manifesto 28 giugno), il quale discute della posta in gioco al tavolo di lunedì prossimo promosso dal Ministro Di Maio. Ne condivido in gran parte l’analisi, soprattutto quando spiega le insidie di un tavolo promosso dopo aver fatto circolare una proposta di intervento legislativo, problematica in alcuni suoi aspetti ma che, evidentemente, ha incontrato da subito una forte rigidità da parte del sistema imprenditoriale in ragione della estensione del perimetro della subordinazione a molta parte del lavoro che potremmo definire “finto autonomo” o parasubordinato.

Condivido altresì la preoccupazione per un tavolo che rischia di definire norme per un perimetro molto limitato, ancorché importante, di lavoratori – i riders – non affrontando invece le questioni più complessive che lo sviluppo del lavoro digitale propone relativamente sia alle nuove forme di organizzazione del lavoro sia, soprattutto, alla definizione di nuovi ambiti di protezione e diritti.

Tema che travalica situazioni particolari e che noi abbiamo affrontato come Cgil con la proposta di legge della Carta dei Diritti, che muove appunto dall’obiettivo di estendere diritti e tutele prevedendone la necessità di riconoscimento a tutti i lavoratori, indipendentemente dalla qualificazione giuridica del rapporto di lavoro. Gli articoli 1 e 42 della Carta, infatti, permettono di allestire un robustissimo apparato di tutele di derivazione costituzionale (comprese nel suo Titolo I) a tutti i soggetti che prestino attività lavorativa a favore di un terzo, senza affondare nelle sabbie mobili della definizione tipologica del lavoro.

È vero che il tavolo non lo hanno promosso le organizzazioni sindacali confederali (vale analogo ragionamento per le associazioni di rappresentanza delle imprese che solo marginalmente rappresentano le imprese che il Ministro ha chiamato al tavolo), tuttavia merita una riflessione critica il passaggio che tende a svilire il ruolo delle organizzazioni confederali solo perché, si evidenzia nell’articolo, non hanno sostenuto direttamente la lotta dei riders.

Su questo non concordo per due ragioni: la prima è perché le organizzazioni sindacali confederali, in virtù della misura della loro rappresentatività, esercitano e hanno sempre esercitato una funzione di rappresentanza di interessi generali, tra i quali ovviamente trovano cittadinanza anche quelli particolari. E’ indubbio infatti che, accanto alle nuove organizzazioni, che certo hanno catalizzato molti consensi, esistano anche molti riders iscritti a Cgil, Cisl e Uil tutelati dal grande lavoro delle federazioni di categoria dei trasporti, del commercio, dei lavoratori atipici che hanno costruito risposte contrattuali “inclusive”, introducendo la figura dei riders nei contratti collettivi nazionali di lavoro. Questo, certamente, non fa venire meno un deficit di capacità di coinvolgimento di questi lavoratori da parte del sindacato confederale, di cui siamo consapevoli e che stiamo recuperando, ma altrettanto merita attenzione il protagonismo di molte federazioni di categoria (per la Cgil parlo della Filcams, Filt, NIdiL) che hanno riders iscritti e che stanno lavorando per garantire maggiori tutele a questi lavoratori, ricomprendendoli nella contrattazione collettiva.

La seconda ragione di dissenso è questa: delegittimare e dividere la rappresentanza del mondo del lavoro, come sanno tutti coloro che vogliano fare sindacato, è la strada che di solito perseguono le nostre controparti e che indebolisce l’obiettivo comune che perseguiamo, l’allargamento dei diritti e delle protezioni dei lavoratori.

In questo senso, quindi, ritengo che l’invito dell’Avvocato Brunetti a rifuggere i corporativismi sia assolutamente da accogliere, rilanciando un’azione contrattuale che coinvolga gli interessi di tutti i lavoratori e che sia frutto di una rappresentanza vera del lavoro, come dice l’articolo 35 della Costituzione, “in tutte le sue forme ed applicazioni”.

Se, invece, il tavolo dovesse rivelarsi un espediente per dividere il fronte del lavoro e approfittarne per puntare ad una contrattazione ablativa di diritti, allora certamente la strada della normazione sarebbe quella più auspicabile, sul modello universalistico scolpito nella Carta dei diritti promossa dalla Cgil che prima ho citato e senza avventurarsi in defatiganti ed improbabili operazioni di estensione della nozione di subordinazione.

*Responsabile Ufficio giuridico e vertenze legali Cgil nazionale