Qual è l’esito del ciclo di lotte dei fattorini delle consegne a domicilio in Italia a tre anni e mezzo dall’inizio delle mobilitazioni? Non è semplice rispondere. È evidente che tale esito non dipende solo dalle lotte, ma sarebbe inutile analizzare un conflitto in corso in un piccolo, parziale segmento del mondo di chi svolge prestazioni mediante piattaforme digitali, a partire dall’avversario. Le piattaforme digitali del food delivery oggi continuano a ottenere margini a discapito di una flotta in sistematico eccesso di lavoratori privi di tutele, garanzie, diritti. Da questa prospettiva, non si può dire che ci sia stato un miglioramento delle condizioni materiali dei rider. Ed è forse questo l’esito negativo sul piano sindacale, sebbene ci siano alcune sfumature da tenere in considerazione.

Se qualche avanzamento in questi anni c’è stato, infatti, ciò è stato il prodotto stesso delle mobilitazioni in corso, le cui rivendicazioni sono però ancora lungi dall’essere realizzate in maniera concreta. Alcune sperimentazioni in atto ci dicono di un processo dinamico e, se valutate in questo preciso momento, a uno stadio ancora intermedio. Gli accordi territoriali per esempio affondano le radici in questo ciclo di lotte, e malgrado la limitata sfera di applicazione, contengono degli elementi innovativi rispetto al panorama generale (come l’accordo pilota sottoscritto nel maggio scorso a Firenze, o la carta dei diritti dei lavoratori delle piattaforme a Bologna siglata dai collettivi autonomi, sindacati di base, confederali e comune). Anche la stesura delle leggi regionali – seppur non vincolanti – in Piemonte, Lazio ed Emilia Romagna, alla lontana vanno ricondotti al ciclo di lotte di questi anni, e suggeriscono possibili traiettorie sullo sviluppo futuro del conflitto.

D’altro canto, lo sforzo dell’ex ministro del lavoro Luigi Di Maio di voler intervenire sullo stato di irregolarità che penalizza i fattorini a partire da un tavolo nazionale non ha prodotto nulla di concreto. Il recente decreto apparso sulla Gazzetta Ufficiale a inizio settembre – mentre si formava il nuovo governo – per la tutela del lavoro e le crisi aziendali, nel primo articolo pone l’accento sui lavoratori delle piattaforme digitali, ma si tratta di un testo ancora approssimativo, generico, anche se può sembrare un passo avanti nel processo di riconoscimento dei diritti dei lavoratori delle piattaforme ottenuti in seguito a questi anni di mobilitazioni. Il nuovo governo Pd – Cinque Stelle adesso ha sessanta giorni di tempo per discutere, modificare e convertire il decreto in legge, e staremo a vedere se in parlamento verrà migliorato (o peggiorato).

Al momento dunque, le rivendicazioni sono disattese. Riconoscimento del rapporto di subordinazione, minimo garantito, aumento percentuale di pagamento a consegna in caso di pioggia o lavoro notturno, sicurezza, abolizione del ranking per citarne alcune: se il governo è stato inconcludente finora in merito a queste richieste, le amministrazioni comunali hanno rivelato a tratti un’inerzia imbarazzante, come nel caso di Milano. Dopo l’incidente di un fattorino, l’assessorato al lavoro ha organizzato un tavolo allo scopo di elaborare una regolamentazione nell’area metropolitana. È nato uno sportello e poco altro, ma a riflettori spenti ci si è resi conto di quanto sia superfluo tutto ciò. Oggi i fattorini non hanno neanche un posto in cui riposare durante il loro lavoro, non esiste un registro degli infortuni e in caso di incidenti i loro mezzi vengono portati in depositi le cui spese di giacenza sono a loro carico. Ciò avviene in una città che ha aderito al progetto “Decent Work Cities” al fine di condividere pratiche e politiche per promuovere il lavoro dignitoso saldando “innovazione e inclusione”.

A fronte di queste dinamiche, le rappresentanze sindacali autonome hanno scelto lo stato di agitazione permanente. Gli obiettivi sono da sempre gli stessi e anche le sentenze stanno dando ragione a certe rivendicazioni. Le lotte, nel complesso, sono state per lo più disomogenee, soprattutto tra sindacati confederali – che finora non hanno dimostrato di avere una strategia unitaria condivisa nel lungo periodo – e rappresentanze autonome (ma anche il sindacalismo di base ha un ruolo). In un settore considerato come il banco di prova della nuova organizzazione del lavoro nel capitalismo digitale si sconta l’assenza di un coordinamento nazionale, il difficile coinvolgimento dei lavoratori e i limiti delle organizzazioni prive di strutture solide e diritti sindacali, troppo ancorate alle riflessioni degli anni Novanta sul precariato che, come scriveva in una lettera aperta ai collaboratori di un numero speciale della rivista “Primo Maggio” Sergio Bologna, è stato definito come classe ma non si è costituito come classe.

Ciononostante, il merito delle rappresentanze autonome è stato quello di aver creato uno spazio della rappresentanza in un frammento del mercato del lavoro digitale privo di tutele, laddove persisteva l’assenza di categorie e strumenti adatti a interpretare i nuovi fenomeni di sfruttamento digitalizzato. Radicati nei territori e ispirati a un modello di sindacalismo sociale, i collettivi autonomi hanno creato i presupposti per il conflitto, riempito un vuoto e rinnovato gli strumenti sindacali, andando oltre le storture del sindacalismo confederale, incapace, in questi anni, di stare al passo con le trasformazioni dettate dall’economia dei lavori digitalizzati. È questo l’esito positivo in termini politici a tre anni e mezzo dall’inizio delle mobilitazioni. Il cambiamento delle forme organizzative del lavoro condizionato dalle tecniche digitali ha richiesto un adeguamento delle forme sindacali di organizzazione, sperimentate dai collettivi autonomi, e se è vero che l’economia digitale ha creato nuovi presupposti per la negazione dei diritti, d’altro canto le organizzazioni sindacali non sono riuscite a cogliere in tempo la portata di un tale cambiamento. Incapaci di aprire spazi di contrattazione, i sindacati confederali si sono rivelati inadatti al conflitto che emergeva grazie alle contraddizioni che nel frattempo facevano esplodere le rappresentanze autonome, per poi agire di conseguenza. Hanno definito “storico” l’ultimo contratto collettivo della logistica perché è stata inserita la figura del rider, ma per chi conosce quel settore è evidente quanto sia inappropriato parlare di contratto storico.

Altro punto su cui riflettere è l’efficacia degli scioperi. In un settore caratterizzato dalla disponibilità di forza lavoro sempre maggiore rispetto alla reale necessità e dall’intermediazione digitale delle piattaforme, c’è ancora molta strada da percorrere per creare danni economici e d’immagine alla controparte datoriale, per esempio attraverso azioni mirate al sabotaggio, all’ingresso nei linguaggi delle app. Ma la buona notizia è che, al di là di qualsiasi bilancio azzardato, queste lotte non sono ancora terminate.

**università degli studi di Firenze