Alla fine Ghassan Salamah, capo della missione Onu in Libia (Unsmil) ha gettato ieri la spugna e rassegnato le dimissioni. «Per due anni – ha scritto su Twitter – ho cercato di riunire i libici, frenare le interferenze esterne e preservare l’unità del Paese. Ora che la mia salute non consente più questo ritmo di stress, ho chiesto al segretario generale di rimuovermi dall’incarico, sperando nella pace e la stabilità per la Libia».

Lo «stress» a cui fa riferimento era rintracciabile già nelle sue parole di venerdì scorso: alla fine della tre giorni di negoziati politici a Ginevra, aveva ammesso di non aver raggiunto nessun passo concreto per il cessate il fuoco. «Ci sono state gravi violazioni dell’accordo di tregua nelle passate 24 ore» aveva allora denunciato malinconicamente.

A Salamah – che fu scelto solo dopo che gli Stati Uniti bocciarono l’ex premier palestinese Salam Fayyad – va riconosciuto il merito di aver individuato i tre binari su cui si deve muovere qualunque soluzione politica libica: militare, economico e politico.

Tuttavia la sua azione politica non ha portato risultati tangibili: il vertice di Berlino dello scorso gennaio, da lui fortemente sponsorizzato, si è rivelato sin da subito un flop.

«Sarà difficile ora per un altro inviato accettare la missione di lavorare in Libia», ha commentato così l’uscita di scena di Salamah Fathi Bashagha, il potente ministro degli interni del Governo di accordo nazionale (Gna) riconosciuto internazionalmente. «Ha fatto un grande lavoro – gli ha fatto eco il parlamentare rivale di Tobruk Ziyad Dugheim – nonostante gli errori, sarà difficile trovare un’alternativa migliore».

Salamah lascia mentre in Libia infuriano i combattimenti più violenti dell’ultimo periodo. E pensare che sulla carta (ma solo lì) è ancora in vigore il cessate il fuoco mediato da turchi e russi lo scorso 12 gennaio. Il Gna ha annunciato che un bambino è stato ucciso e altre quattro persone sono rimaste ferite dopo che un colpo di mortaio ha centrato la loro casa a Tareeq al-Shouq (Tripoli).

Il governo tripolino ha anche riferito di aver ucciso nell’area a sud della capitale 23 uomini armati e ne ha arrestati altri 4 durante un’offensiva delle forze dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl) di Khalifa Haftar, il braccio armato di Tobruk.

Ad alzare la voce contro le violenze è l‘Onu che ha espresso il suo «profondo sgomento per l’intenso e indiscriminato bombardamento» contro civili e diverse aree di Tripoli, incluso l’aeroporto di Mitiga (nuovamente chiuso).

L’Enl, invece, ha annunciato di aver preso il «pieno controllo» della città di al-Aziziya (sud di Tripoli) dove risiede una delle più grandi tribù libiche, gli Wershfana, in passato sostenitori del rais Gheddafi. Ma il risultato più importante raggiunto in queste ore da Haftar arriva da Damasco dove una sua delegazione ha riaperto l’ambasciata libica chiusa dal 2012.

A unire la Bengasi di Haftar e la Damasco di Assad mai come ora è un solo imperativo: combattere «l’aggressione turca».