I nostri giudici vivono sulla Luna? Sì, a quanto pare. La notifica del processo ai quattro massacratori egiziani di Giulio Regeni è arrivata da un pezzo. Non se ne è accorta soltanto la terza Corte di assise di Roma che lo avrebbe già capito soltanto se avesse letto qualche giornale, oltre ovviamente alle carte del pubblico ministero Colaiocco.

Basta ragionare con la logica: sono le stesse autorità del Cairo a rifiutare di fornire l’indirizzo degli accusati ed evidentemente non lo fanno a loro insaputa. Costoro sono stati definiti «irreperibili» perché le autorità egiziane ne hanno sempre nascosto gli indirizzi e ci sono «elementi di prova univoci e significativi» che sappiamo benissimo di essere stati chiamati a processo in Italia. Anche perché il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif – ripetiamo i nomi, nessuno li dimentichi -, sono stati spostati ad altri incarichi rispetto a quelli che ricoprivano, più o meno direttamente, nella famigerata stanza numero 13 della Sicurezza Nazionale egiziana dove Giulio Regeni è stato incatenato, seviziato, torturato e ucciso.

A rigor di logica, non so se di diritto, questi agenti e i loro capi sono dei latitanti: non si è latitanti soltanto se uno si nasconde alla macchia, lo si diventa anche quando è un intero apparato dello stato egiziano a nasconderli e a renderli irreperibili.

In questi cinque anni dalla morte di Regeni l’Egitto ha avuto tutto il tempo per fare giustizia ma non ha mosso un dito: per primo proprio il generale Al Sisi. Anzi è stato fatto di peggio, con depistaggi continui: a cominciare dall’autopsia, le cui conclusioni («morte per emorragia cerebrale») dovevano accreditare un incidente stradale mai avvenuto, per proseguire con il ritrovamento del suo cadavere denudato (utile a sostenere la pista del movente sessuale), fino alla cruenta messa in scena che doveva accollare la responsabilità della uccisione di Giulio a un banda di rapinatori del Cairo che altro non erano che innocenti fucilati a freddo dai servizi egiziani per simulare un conflitto a fuoco.

Chiedere alle autorità egiziane di collaborare è come chiedere al complice e al mandante di una assassino di consegnare il colpevole. Il Cairo ha avuto un comportamento criminale, dall’occultamento all’invenzione delle prove, a omicidi in serie: in un processo Regeni va alla sbarra il regime del generale, difficile circoscriverlo soltanto agli imputati. Per questo non lo vogliono un processo e proteggeranno sempre i mandanti, gli autori materiali e anche l’ultima ruota del carro coinvolta in questa barbarie. Di questo evidentemente i giudici di corte d’Assise non se ne sono resi conto: qui non si riuscirà a notificare niente a nessuno, se continuano i comportamenti descritti nella carte del pm Colaiocco.

Come la pensa sul caso Regeni ce lo ha detto lo stesso Al Sisi qualche giorno fa parlando davanti ai leader dei Paesi del gruppo di Visegrad – significativamente allargato all’Egitto. Il presidente egiziano ha avvertito i Paesi Ue che il Cairo «non si sottometterà ai diktat europei» in materia di diritti umani.

Chiaro il riferimento alle vicende di Giulio Regeni e Patrick Zaki. «Avete a che fare con uno Stato che rispetta se stesso e rispetta pienamente la propria gente. In Egitto c’è un potere che non si sottomette a nessun diktat», ha detto Al Sisi a Budapest. Cosa si vuole mai notificare a un autocrate golpista del genere? Come scriveva una settimana fa sul manifesto Riccardo Noury di Amnesty International, la procura suprema egiziana non solo presiede a processi e a condanne emesse al termine di procedimenti irregolari, spesso basati su prove estorte con la tortura, ma è anche «l’architrave del clima d’impunità che circonda il fenomeno dei desaparecidos»: i suoi giudici attestano regolarmente che un detenuto è comparso davanti a loro nel rispetto della procedura – entro due giorni dall’arresto – cancellando dunque settimane se non mesi di sparizione forzata. Cosa mai volete notificare a un sistema giudiziario di tal fatta?

Ma su tutta questa vicenda grava un sospetto. Ovvero che non si vogliano processare gli imputati di un Paese con cui facciamo affari alla grande con le vendite di armamenti. Il fatto che la presidenza del consiglio si sia costituita parte civile, come affermava ieri Erri De Luca, intervistato sul manifesto da Chiara Cruciati, «non è una notizia, la notizia vera sarebbe stata se il governo non lo avesse fatto, era un atto dovuto».

Perché anche l’Italia, anche noi siamo stati complici di Al Sisi quando gli abbiamo dato credito che avrebbe fatto giustizia: ci hanno creduto forse coloro che lo intervistarono e soprattutto all’epoca il premier Renzi, un senatore che indubbiamente sa far politica e anche gli affari. Ma ovviamente è solo un sospetto e siamo fiduciosi che il processo Regeni prima o poi ripartirà alla ricerca di un barlume di verità e giustizia.