Due anni fa, in un fosso lungo l’autostrada Il Cairo-Alessandria, un camionista di passaggio (almeno ufficialmente) trovava il corpo di Giulio Regeni, devastato dalle torture.

Dal 25 gennaio, anniversario della scomparsa, si moltiplicano le iniziative in tutta Italia per ricordare il ricercatore, un esercizio di memoria attiva che dichiarazioni stantie non riescono a sporcare. Due giorni fa, all’inaugurazione del mega bacino di gas sottomarino di Zohr, il presidente al-Sisi ha allietato l’ad di Eni De Scalzi con la solita narrativa del regime: Regeni è stato ucciso per rovinare i rapporti con l’Italia.

Regeni è stato ucciso da professionisti della tortura, funzionari di servizi militari, polizia o esercito che compiono identici abusi su migliaia di egiziani. In questo inizio di febbraio, amara coincidenza, cade un altro anniversario: il primo dalla chiusura per decreto del Nadeem Center, organizzazione egiziana che dal 1993 ha monitorato e denunciato innumerevoli casi di sparizioni forzate e torture per mano dello Stato, oltre a occuparsi della riabilitazione fisica e psicologica dei sopravvissuti.

A dodici mesi dallo shutdown governativo, gli attivisti di Nadeem – il cui ultimo rapporto, sul 2016, documentava 600 casi di torture e quasi 500 omicidi extragiudiziali – hanno ricevuto il premio per i diritti umani di Amnesty Germania: «La clinica è chiusa – ha detto per l’occasione Aida Seif al-Dawla, fondatrice del centro – ma i terapisti esistono ancora e dunque il lavoro continua». Continua senza una sede fisica, plastico esempio della tenacia delle organizzazioni egiziane.

Da una parte sta il regime, ieri impegnato con i bulldozer militari a distruggere case e uliveti in Sinai (con il conseguente sfollamento di migliaia di persone) per costruire una zona cuscinetto anti-islamista intorno all’aeroporto di Arish, come riportano all’Ap i locali.

Dall’altra un ampio spettro politico che si oppone nonostante gli ostacoli. Ieri scadeva il termine ultimo per presentare ricorso contro le candidature alle presidenziali del 26-28 marzo che vedono la partecipazione del solo al-Sisi e un candidato di facciata, Moussa Mustafa Moussa, suo sostenitore. Ricorsi non ce ne sono stati: per legge solo gli altri candidati possono presentarne ed è fantascienza pensare che i due si attacchino a vicenda.

E allora le opposizioni optano per un’altra via, forti della disillusione che avvolge l’Egitto e dimostrata dall’affluenza all’ultima tornata elettorale, il 28% alle parlamentari di ottobre 2015, numeri molto simili a quelli dell’ultima era Mubarak (alle presidenziali della vittoria di Abdelfattah al-Sisi, nel maggio 2014, votò il 47,5%).

Da giorni i partiti di sinistra e liberali si appellano al popolo egiziano perché boicotti il voto. La chiamata è del Movimento civile democratico, federazione di sette partiti di opposizioni, tra cui Karama, Dustour e i socialdemocratici, a cui sono seguite quelle del «tentato» candidato di sinistra Khaled Ali, del Movimento 6 aprile e dei Socialisti Rivoluzionari, e una lettera di 48 personalità che chiedono sospensione del voto e smantellamento della National elections authority. Tra loro l’ex ministro degli esteri Marzouq, il giornalista Ismail e lo scrittore Al-Aswani.