Nella prima conferenza stampa dopo la vittoria alle presidenziali di venerdì scorso (possibile anche grazie al boicottaggio di parte dell’elettorato moderato e riformista), Ebrahim Raisi presenta la sua agenda.

Non poteva non partire dalla politica estera e da una questione a cui sta appesa la tenuta economica dell’intero paese: l’accordo sul nucleare iraniano, a cui il predecessore Rohani ha sacrificato anni di presidenza, sconfitte, arretramenti e infine consensi.

Sì al negoziato, o meglio al ri-negoziato dopo l’uscita dall’accordo del 2015 da parte degli Stati uniti di Trump. Un via libera già annunciato in campagna elettorale, nonostante l’approccio propagandistico dei conservatori alla questione.

Ma, ha detto Raisi, il programma missilistico iraniano «non è sul tavolo» e di incontrare il presidente americano non se ne parla: «Non permetteremo negoziati fini a se stessi. Un negoziato volto a dei risultati è per noi importante», per poi rispondere un secco no alla domanda se avrebbe incontrato Biden.

In ogni caso, ha aggiunto, quell’accordo non è il solo tema di politica estera che intende affrontare. In merito alle rivalità regionali, ha aperto all’Arabia saudita («Nessun ostacolo alla riapertura delle ambasciate tra i due paesi»), mentre il portavoce del ministero degli esteri – ancora guidato dal riformista Zarif – ribadiva la notizia di un dialogo in corso con la petromonarchia.

Nella stessa conferenza stampa, Raisi ha voluto anche trattare l’altro tema caldissimo in casa e fuori, ovvero il suo curriculum: da vice procuratore di Teheran firmò la condanna a morte di 5mila dissidenti marxisti e di sinistra, per poi vedersi l’anno dopo, nel 1989, promosso a procuratore generale. Le associazioni per i diritti umani lo accusano di essere stato uno dei membri della cosiddetta «commissione della morte», responsabile di sparizioni ed esecuzioni di migliaia di prigionieri politici.

«Tutto quello che ho fatto è stato difendere i diritti umani – ha detto ieri – Se un esperto legale, un giudice o un procuratore ha difeso i diritti delle persone e la sicurezza della società, deve essere lodato e incoraggiato». Nessun rimorso, dunque, nonostante ci sia chi (come Amnesty) ne chieda l’incriminazione per crimini di guerra.