Continua l’incubo per 47 milioni di sudanesi intrappolati nei combattimenti giunti al 14mo giorno e per quelli – decine e decine di migliaia, con numeri in rapida crescita – che con ogni mezzo, anche incolonnandosi a piedi, cercano scampo oltre i confini dei paesi vicini.

Un certo stridore è venuto a crearsi ieri tra le notizie di furiose battaglie, proseguite anche nel terzo giorno della “tregua” che gli Usa pensavano di aver ottenuto, e le parole del segretario di Stato Antony Blinken: «Lavoriamo attivamente per estendere il cessate il fuoco». Ormai è chiaro che la «diminuzione significativa» degli scontri di cui parla Blinken ha riguardato essenzialmente i percorsi scelti per evacuare i cittadini dei paesi occidentali e la zona intorno all’aeroporto, agevolando il ponte aereo che collega la capitale sudanese Khartoum a Gibuti.

ANCHE IL PREMIER BRITANNICO Sunak ha chiesto di estendere di altre 72 ore la tregua che scadeva in serata. E lo stesso ha fatto l’organismo regionale Igad (Intergovernmental Authority on Development), aggiungendo la proposta di un tavolo negoziale da aprirsi a Juba, nel Sud-Sudan. Idea subito accolta dal generale Abdel Fattah al-Burhan, a capo del Consiglio sovrano di transizione e delle forze armate.

Non pervenuto il generale Mohamed Hamsan “Hemeti” Dagalo, preso forse dalle difficoltà che le sue Forze di supporto rapido (Rsf), per quanto numerose, rapide e bene armate, incontrano sul terreno. In cuor suo al-Burhan, con la superiorità che gli garantisce l’aviazione, spera forse di chiudere la pratica ancora prima di sedersi a quel tavolo.

I Sukhoi e gli Antonov delle Forze armate sudanesi (Saf) anche ieri sono stati impiegati contro le colonne armate di Dagalo che cercano di convergere sulla capitale. Ma hanno colpito duro anche a Khartoum, nella zona nord e in centro, intorno al palazzo presidenziale. Centrata anche l’area fieristica di Soba. Tutte aree urbane dove la presenza delle Rsf è più vistosa e il rischio di colpire le abitazioni più alto. Da qui l’accusa-scusa rivolta alle forze di Dagalo, di usare i civili come scudi umani.

PER CONTRO, riferiscono fonti di Agenzia Nova, le milizie di janjaweed alleate delle Rsf minacciano di far saltare le dighe sul Nilo. A cominciare dalla Roseires, 7 miliardi di metri cubi d’acqua che avrebbero effetti devastanti sulle popolazioni a valle.

Non aiuta il ritorno in gioco di vecchie conoscenze della politica sudanese. L’evasione eccellente dell’ex ministro Ahmed Haroun, pluripregiudicato all’Aja, riaccende il carosello di alleanze a geometria variabile che ha segnato la storia recente del Sudan. Fenomeno che riguarda i due generali in lotta, prima organici alla dittatura di al Bashir, poi alleati nel suo superamento e infine arcinemici, ma a cascata investe tutti i centri di potere, grandi e piccoli, che dal centro alla periferia sono in subbuglio. Gli antichi rancori intercomunitari non mancano. I racconti di incursioni sanguinarie da parte di «milizie arabe» nei villaggi del Darfur riportano fatalmente indietro le lancette del tempo.

PER QUEL CHE VALE, il bilancio aggiornato ieri mattina dal ministero della Sanità sudanese parlava di 512 morti e 4.193 feriti dall’inizio della crisi. Non erano compresi gli almeno 96 morti che si sono contati più tardi a al-Geneina, capitale del Darfur occidentale, negli scontri tra esercito e Rsf. Riflesso immediato, la fuga di migliaia da persone verso le regioni orientali del Ciad, dove ad accoglierli c’è il nulla. Il Pam sta convogliando nell’area cibo per 20 mila persone. Se ne attendono dieci volte di più nei prossimi giorni.

Da Khartoum intanto filtrano con difficoltà le storie di singole famiglie che raccontano il dramma collettivo. Meglio se a raccontarle sono sudanesi con passaporto britannico, come il medico ferito con mamma malata priva di visto che ha potuto affidare la sua richiesta di aiuto alla Bbc. Ma dopo quello degli ucraini e dei gazawi presenti in Sudan, c’è anche il paradosso di una famiglia rohingya da poco scampata alle bombe dei militari birmani bloccata sotto quelle dei militari sudanesi.

ANCHE SULEIMAN Ahmed Hamid, un residente che avevamo sentito nei giorni scorsi mentre resisteva con la famiglia e dava ospitalità ad altre persone sfollate, ora pensa sia arrivato il tempo di lasciare la città, con la morte nel cuore: «Troppo pericoloso stare qui senza acqua, elettricità, cibo, tra la vita e la morte. Khartoum sta piangendo, le sue belle strade sono finite, meglio partire verso l’Egitto o l’Etiopia».

Difficilmente troverà corridoi umanitari come quelli predisposti per i profughi ucraini dopo l’invasione russa, né in Europa né altrove. La stessa Etiopia ha chiuso il confine, entra solo chi è munito di visto.