Israele è pronto a invadere il Libano del sud e a reagire alla risposta di Hezbollah, dicono i capi militari e politici di Tel Aviv mettendo l’acceleratore a una guerra devastante. E sembrerebbero pure pronti a pagare un prezzo alto, tanto peserà su altri. Colpiscono in tal senso le parole che il ministro israeliano per gli affari religiosi, Michael Malchieli, ha affidato l’altro giorno a Channel 14: il suo dicastero, ha detto, è impegnato nei preparativi della guerra, comprese sepolture di massa.

Mentre i ministri israeliani incendiano gli animi, il negoziato indiretto tra Hezbollah e Tel Aviv starebbe proseguendo, ma di luci in fondo al tunnel se ne vedono poche. L’inviato della Casa bianca Amos Hochstein ha avvertito le autorità libanesi che, in caso di conflitto aperto, Washington sosterrà Israele.

HA AVVERTITO anche che eventuali pause nell’offensiva contro Gaza permetterebbero all’esercito israeliano di focalizzarsi sul fronte nord, seppur Hezbollah abbia ribadito – di nuovo mercoledì con il suo leader Nasrallah – che il cessate il fuoco nella Striscia fermerebbe i missili sciiti, perché il movimento è ben consapevole – come lo è Beirut – che un’invasione a sud sarebbe un disastro per un Libano già martoriato.

Ieri al confine è stato altro giorno di fuoco, da entrambe le parti. Su territorio libanese un attacco israeliano via drone ha ucciso un civile che stava viaggiando verso la cittadina di Srifa. Hezbollah, da parte sua, ha lanciato circa 25 razzi verso Zar’it, nessuna vittima ma danni ad alcune case.

Il fuoco israeliano è piovuto, per il 258esimo giorno consecutivo, anche su Gaza. Bombardamenti sul campo profughi di Nuseirat (dove sono state uccise due donne e, secondo l’esercito, è stato ammazzato uno dei leader dell’unità Nukhba di Hamas che ha preso parte all’attacco del 7 ottobre), su Gaza City e su Deir al Balah. Pesanti combattimenti tra militari israeliani e combattenti palestinesi si sono registrati a Rafah, la cui zona sud e ovest è sotto l’enorme pressione dei carri armati e dei caccia israeliani da giorni. Gli scontri peggiori, riportavano ieri i giornalisti palestinesi, hanno avuto come teatro il campo profughi di al-Shabura.

«A Rafah – scrive la giornalista Hind Khoudary – le forze israeliane hanno spianato terre agricole a est e fatto saltare in aria delle case. A sud e ovest, sono in corso scontri intensi tra i combattenti palestinesi e i soldati israeliani. Le persone nelle tende sono intrappolate, non riescono a scappare».

Il bilancio aggiornato a ieri dal ministero della salute di Gaza dava conto di 37.431 palestinesi uccisi dal 7 ottobre, a cui si aggiungono oltre 85.600 feriti e almeno 10mila dispersi sotto le macerie e probabilmente morti.

È in tale contesto che ieri i gruppi di esperti e i relatori speciali delle Nazioni unite sono tornati a prendere parole, come fanno ormai regolarmente, contro l’offensiva israeliana, per lanciare un avvertimento ai paesi alleati di Tel Aviv ma soprattutto alle aziende produttrici di armi: inviare equipaggiamento militare e pezzi di ricambio all’esercito israeliano potrebbe renderle complici di violazione del diritto internazionale «anche se (le vendite) vengono eseguite sulla base di esistenti licenze di esportazione».

A ISRAELE le cose non vanno meglio in casa. Di nuovo ieri migliaia di persone hanno manifestato contro il primo ministro Netanyahu bloccando una delle principali autostrade del paese, la Route 6, con copertoni dati alle fiamme. La polizia ne ha arrestati cinque.

Una repressione che al momento non paga: se la maggioranza degli israeliani concorda con il prosieguo dell’offensiva contro Gaza, un pezzo importante di opinione pubblica manifesta da settimane chiedendo nuove elezioni, la rimozione di Netanyahu e un accordo di scambio con Hamas, per riportare a casa i circa 120 ostaggi ancora in mano ad Hamas e ad altri gruppi palestinesi. Di questi è difficile dire quanti siano quelli ancora in vita visti i bombardamenti a tappeto contro l’intera Striscia. Ci prova il Wall Street Journal, che cita fonti statunitensi: sarebbero meno di 50 gli israeliani a Gaza ancora vivi. Un numero enorme che fa tremare il governo.

COME LO POTREBBE far tremare l’inchiesta interna dell’esercito israeliano, citata ieri dal sito di informazione N12: un grande numero di vittime del 7 ottobre (furono uccisi circa 1.100 israeliani, tra civili e militari) è stato provocato da fuoco amico. Di numeri non si parla, si parla di «grande numero» e di «incidenti multipli delle nostre forze che hanno sparato alle nostre forze», come le granate lanciate contro le case del kibbutz Beeri perché, dice l’inchiesta, il generale Hiram ordinò di «entrare dentro, anche a costo di vittime civili».

In attesa della pubblicazione dell’inchiesta forse a metà luglio, Channel 12 ne riporta anche stralci relativi alle vittime tra i militari: «Il fuoco amico ha portato alla morte e al ferimento di un numero non precisato di soldati che erano esitanti ad affrontare» Hamas.