La speranza che Hind fosse ancora in vita e così anche i due paramedici inviati a salvarla, erano poche, quasi nulle. La notizia, temuta da tutti ma non inattesa, è arrivata ieri alle prime luci del giorno. Hind Rajab, la bimba di 6 anni scomparsa da 12 giorni, è stata ritrovata morta, sull’auto assieme allo zio Bashar Hamada, sua moglie e i loro tre figli. Tutti uccisi dal fuoco di un carro armato israeliano il 29 gennaio, mentre l’automobile era diretta all’ospedale Al Ahli di Gaza city.

Il viso dolce e il sorriso di Hind saranno tra i più ricordati tra quelli degli oltre 10mila bambini e ragazzi palestinesi uccisi dell’offensiva israeliana che ha distrutto la Striscia di Gaza facendo 28mila morti e 70mila feriti. La sua storia ha fatto il giro del mondo. La Mezzaluna Rossa aveva ricevuto l’autorizzazione ad inviare un’ambulanza a Tal Al Hawa, alla periferia di Gaza city, per salvare Hind da alcune ore intrappolata in un’auto, unica sopravvissuta delle sei persone a bordo, tra cui altri bambini, al fuoco dei mezzi corazzati israeliani. Dopo l’uccisione di zii e cugini, Hind, ferita e impaurita, aveva parlato a lungo al telefono con la mamma e un’operatrice del call center della Mezzaluna Rossa a Ramallah. La bimba aveva detto di vedere le «luci rosse lampeggianti» dell’ambulanza poco prima che la chiamata – registrata dalla Mezzaluna Rossa – fosse interrotta dal fuoco di un mezzo corazzato. Altre raffiche di mitragliatrice hanno ucciso Yusuf Zeino e Ahmed Al Madhoun, i due paramedici che malgrado il rischio della vita si erano offerti di raggiungerla.

Il ritrovamento del corpo della bambina, ha gettato un’ulteriore ombra sul futuro dei circa 600mila minori palestinesi che si trovano accampati con le loro famiglie sfollate, ma anche non accompagnati, nelle tendopoli di Rafah. L’offensiva israeliana sull’ultimo rifugio disponibile per i civili di Gaza, adulti e minori, è imminente. Non lo dicono solo le parole di Benyamin Netanyahu che questa settimana ha detto che le forze israeliane continueranno a combattere fino alla «vittoria totale», anche a Rafah dove si troverebbero «quattro battaglioni di Hamas».

Un segnale inequivocabile è giunto dall’Egitto che ha inviato 40 carri armati e mezzi corazzati nel nord-est del Sinai per rafforzare la sicurezza al confine di fronte alla possibilità che i palestinesi possano essere spinti fuori da Gaza dall’avanzata israeliana. Per questo motivo il governo del Cairo ha fatto costruire un muro in cemento armato alto sei metri, sormontato da filo spinato arrotolato, con diversi terrapieni che corrono dietro di esso.

Ma non basterà quella barriera a frenare centinaia di migliaia di palestinesi in preda al panico a causa dell’offensiva ordinata da Netanyahu. Le assicurazioni date da un funzionario israeliano sul trasferimento di sfollati e residenti ora a Rafah verso il centro di Gaza, non hanno convinto l’Egitto che mette in guardia Israele dal rioccupare il Corridoio Filadelfia, una striscia di 12 km sul confine, al fine di distruggere i tunnel che passerebbero sotto la frontiera tra la Striscia e il Sinai.

Secondo i media israeliani Netanyahu, che sa di avere poco tempo a disposizione per i suoi piani, punta a una offensiva rapida su Gaza, della durata di un mese e da terminare prima dell’inizio del Ramadan islamico, previsto tra il 10 e l’11 marzo. In questo modo potrebbe affermare di aver «completato» la caccia ad Hamas e ai suoi leader resistendo alle pressioni dell’Amministrazione Biden che, a parole, si dice contraria all’invasione di Rafah.

Una immagine di fermezza che forse Netanyahu pensa di sfruttare al momento delle elezioni politiche contro il suo avversario, il centrista Gantz. Le agenzie internazionali mettono in guardia da una probabile strage di civili. «Qualsiasi incursione israeliana a Rafah significherà massacri e distruzione. La gente riempie ogni centimetro di questa città e non c’è nessun posto in cui possa andare. Ci prepariamo ad aiutare le tante persone che si troveranno coinvolte nell’offensiva militare, ma se si vuole impedire un massacro allora Israele deve essere fermato», diceva ieri al manifesto un funzionario delle Nazioni unite che ha chiesto l’anonimato. Non pochi palestinesi cercando di spostarsi verso i Mawasi, Zuweida, Deir al Balah o tornado a Khan Yunis, sperando di trovare qualche rifugio in una città semidistrutta dai bombardamenti e dalle «detonazioni controllate» di Israele, ossia la distruzione con l’esplosivo di interi quartieri nei centri palestinesi.

La vigilia dell’attacco a Rafah è insanguinata. Ieri nuovi attacchi aerei israeliani hanno ucciso 17 persone nella città sul confine con l’Egitto, tra cui un presunto comandante militare e due combattenti di Hamas. A Khan Yunis i reparti corazzati israeliani hanno completato l’accerchiamento dell’ospedale Nasser assieme a 300 medici e paramedici e 450 pazienti anche 10.000 sfollati. Bombardamenti sono avvenuti anche a nord e nel centro.

Intanto le reti televisive israeliane riferiscono di piani «sperimentali» in discussione che potrebbero consentire in tempi medi il ritorno di decine di migliaia di sfollati al nord di Gaza, dove verrebbero ospitati in tendopoli in attesa della ricostruzione di case e edifici e delle infrastrutture di base. L’esercito, aggiungono, garantirebbe suoi aiuti umanitari a questa porzione di sfollati nella parte nord di Gaza. In una seconda fase lascerebbe la gestione dell’area ad «amministratori palestinesi», ma non di Hamas. Ieri sera a Gerusalemme e in Israele, si sono svolte nuove affollate manifestazioni contro Netanyahu e per il raggiungimento di una tregua con Hamas che dovrà favorire il rilascio degli ostaggi israeliani a Gaza.