Giorgio Amitrano è docente ordinario di Letteratura giapponese e di Lingua e cultura del Giappone presso l’Orientale di Napoli. Traduttore di Murakami Haruki, Banana Yoshimoto, Yasunari Kawabata, ci racconta il Giappone di oggi alla luce dell’attentato a Shinzo Abe.

Professore, che cosa ha pensato da profondo conoscitore della cultura e della società giapponese quando ha appreso dell’attentato ad Abe?
Le notizie, al momento, sono troppo scarse per potersi orientare e comprendere il significato di quanto è accaduto. L’episodio è sconvolgente, ma gli attentati a personaggi del mondo politico in Giappone non sono rari come si potrebbe pensare, così come non sono rari gli episodi di violenza. Dalla fine della Seconda guerra mondiale in avanti il Giappone si è caratterizzato come un Paese pacifico e pacifista, ma attraversato, a tratti, da esplosioni di rabbia che hanno messo in crisi questa immagine rassicurante. Penso ai moti studenteschi alla fine degli anni Sessanta, agli episodi di terrorismo, al tentativo di colpo di stato di Mishima conclusosi nel sangue, e appunto agli attentati a politici. Si tratta di episodi che, legati a gruppi o originati da impulsi solitari di individui psichicamente instabili, sono sintomi di un’inquietudine collettiva che spesso rimane latente.

Che cosa rappresenta Abe nell’immaginario dei suoi detrattori?
Abe è un personaggio rappresentativo di un potere politico che si trasmette, si potrebbe dire, per via ereditaria, l’esempio di un establishment conservatore, ma non apertamente aggressivo. In realtà dietro questa facciata apparentemente pacata c’era anche la volontà di modificare la costituzione e di procedere verso un Paese militarmente più forte, e l’espressione di posizioni nazionalistiche che avrebbero potuto, tuttora potrebbero avere sviluppi preoccupanti. I suoi programmi politici – ha avuto ben quattro mandati come primo ministro – spesso non erano condivisi da gran parte della popolazione che pure lo aveva votato, rinnovandogli più volte la fiducia, sempre senza particolare entusiasmo. Conosco persone che ritenevano avesse danneggiato il Giappone e che continuavano a votarlo, per una specie di inerzia. Credo che parte della sua forza risiedesse nell’assenza di una vera alternativa, per mancanza di avversari politici sufficientemente carismatici. Ormai da decenni l’opposizione in Giappone è molto debole. Nonostante gli aspetti controversi della figura politica di Abe, è davvero difficile al momento immaginare le ragioni per cui l’attentatore abbia scelto proprio lui come bersaglio di quello che si suppone essere un atto di protesta, ma che potrebbe anche essere l’espressione di una psiche alterata. Bisognerà attendere almeno qualche giorno per un’analisi più puntuale. Al momento si può solo registrare lo sgomento di un paese colpito da una notizia inattesa e scioccante a pochi giorni dalle elezioni. Anche questo timing potrebbe avere un significato che forse capiremo meglio nei giorni a venire.

Abbiamo letto un articolo scritto da lei per The Passenger, Giappone (Iperborea, 2018): Affari di famiglia. Quanto è cambiata la famiglia giapponese dalle meravigliose pellicole di Ozu? E, di riflesso, quanto è cambiata la società dopo la grande bolla speculativa?
Quello che è accaduto è molto complesso, ma dovendolo riassumere brevemente, si può sintetizzare nei seguenti punti: un declino dell’autorità paterna, bilanciato da un maggiore rapporto affettivo dei padri nei confronti dei figli, una crescita culturale e sociale delle mogli e un loro maggior grado di indipendenza nei confronti delle suocere. Nell’insieme, più libertà ma anche un senso generalizzato di perdita di punti di riferimento.

Lo strano sistema politico del Giappone contemporaneo presenta in superficie le idee democratiche “imposte” dall’Occidente, ma sotto sotto sembra appartenere ad un altro mondo. Yukio Ozaki scriveva che le consuetudini e le tradizioni feudali sono ancora profondamente impresse nei giapponesi. Non a caso l’antropologo Fosco Maraini parlava di “versione giapponese della democrazia”. Lei è d’accordo con queste letture?
Ozaki è un uomo vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, e certamente in un Giappone che recava ancora tracce consistenti di un passato “feudale”, ma direi che la situazione è molto cambiata. Un paragone del genere oggi suona anacronistico. Direi piuttosto che è ancora molto forte una componente confuciana, che non identificherei con una mentalità feudale, e che rappresenta un collante sociale molto forte. L’ideologia confuciana, che ha plasmato il comportamento giapponese più di quello cinese, ha prodotto una società tra le più funzionali del mondo, ma non ha certo incoraggiato le libertà individuali.

Molti dicono che il Giappone sia una società rigidamente gerarchizzata, ma alcuni sostengono, anche in maniera un po’ contro-intuitiva, che sia in realtà la più egualitaria delle grandi culture del mondo. Che idea si è fatto?
Trovo che sia una società decisamente gerarchica nei rapporti sociali, per esempio nel posto di lavoro e anche in famiglia, ma piuttosto egualitaria dal punto di vista economico. Infatti non vi sono le macroscopiche differenze di stipendio che abbiamo in Italia tra i dirigenti e gli impiegati di rango inferiore. Un mio amico giapponese sostiene che il Giappone sia il paese più socialista al mondo. È certamente un’esagerazione, ma contiene un fondo di verità. Un altro aspetto “egualitario” è legato al rispetto che si ha in generale nei confronti del cliente o dell’utente. È raro che una persona vestita in modo trasandato o che appaia poco abbiente, sia trattata con freddezza in un negozio, un ristorante o un ufficio. Il rispetto è dovuto a chiunque, indipendentemente dall’aspetto e dalla classe sociale.

Nelle tragedie scritte da Monzaemon Chikamatsu si nota sempre una tensione tra il giri e il ninj, cioè tra dovere e “sentimento umano”. Nella società e nella cultura giapponese questo è ancora il tema dei temi?
Un certo conflitto tra dovere e sentimento è comune a qualsiasi cultura ed è da sempre fonte di ispirazione per la letteratura e le arti, ma in Giappone forse questo conflitto è stato più sofferto. In particolare c’è stata una lunga fase storica, il periodo Edo (1603-1867), in cui il senso del dovere aveva acquistato un peso così schiacciante da esaltare l’intensità di quei sentimenti che le regole sociali tendevano a sopprimere. Tuttavia nel mondo contemporaneo giapponese la tensione tra giri e ninj non è forte come allora, e infatti questo tipo di dramma è meno presente nella letteratura e nel cinema.

Nel XIX secolo gli europei rimasero sorpresi vedendo l’uguaglianza che sembrava esistere tra uomini e donne giapponesi. Siebold, Macfarlane parlano del Giappone come la società più evoluta al mondo riguardo alla parità di genere. Quest’ultimo sostiene che il Giappone sia la società più unisex al mondo. È davvero così o è un’iperbole?
Dissento. Non ho letto Macfarlane ma penso che la sua sia decisamente un’iperbole. Tuttora la donna occupa una posizione subalterna rispetto all’uomo, e il fatto che alcune donne si siano affermate nella politica o occupino posizioni di rilievo non cambia la situazione. Sono eccezioni. In quasi tutti gli ambienti di lavoro, a livello dirigenziale, le donne sono una minoranza ristretta, e il grado di tolleranza per i misfatti maschili è infinitamente più alto di quello nei confronti delle donne. Ciò detto, le donne in Giappone godono oggi di una libertà molto maggiore rispetto a un tempo, e vi sono campi – in particolare quello della cultura – in cui hanno maggiori possibilità di affermarsi. Ma la strada verso la parità è ancora lunga e impervia.