La lettura dell’ultima edizione degli «Annali» della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli dal titolo: La città invisibile / Quello che non vediamo sta cambiando le metropoli (pp. 400, euro 50), ci occupa in un momento critico per Milano, colpita per i suoi recenti progetti urbanistici messi sotto inchiesta della magistratura per le norme e le procedure adottate. La riflessione teorica si lega ai fatti della cronaca e ci si domanda se non ricadano nell’«invisibile» anche quei processi controllati dagli amministratori comunali, a beneficio di professionisti e imprese, che hanno prodotto la forma più insensata di urbanistica che si sia mai vista.

L’«invisibilità» riguarda tutti da vicino ma, come ricorda Alessandro Balducci, curatore dei saggi dell’«Annale», rinvia a una variegata quantità di temi, molto complessi, che rientrano, secondo la definizione che ne diede Henri Lefebvre, nella planetary urbanisation: il «processo di urbanizzazione planetaria, estesa o concentrata, fatta di esplosione e implosioni» che nelle forme della mega-city fissa le proprietà della realtà post-metropolitana, dagli esiti spaziali ancora incerti per le dinamiche economiche, politiche e sociali che vi si presentano.

AD ANALIZZARE con cura ciò che accade con ripetitive similitudini nelle diversi parti del mondo, ci si accorge che per comprendere la città non sono più sufficienti gli strumenti di analisi di un tempo, quando questa era considerata un unico organismo con caratteri specifici inseriti in un contesto definito. Le relazioni, in particolare di natura immateriale, che connettono la pluralità degli eventi che si presentano nella città, non hanno più dinamiche lineari e immaginabili.

Ogni tentativo di governare con metodi razionali e ottimizzatori i problemi urbani si è dimostrato inefficace nei confronti dell’«eterogeneità, l’innovazione, e la competizione – che come hanno scritto Cristoforo Sergio Bertuglia e Franco Vaio, nel loro saggio Il fenomeno urbano e la complessità (2019) – sono riconosciute essere le chiavi per la vitalità e la vivibilità della città».

Nelle difficoltà di pianificare l’entità complessa della città, inserita ormai in un sistema transnazionale di città-rete, un ruolo dominante lo assume l’economia finanziaria alla quale ubbidiscono le politiche urbanistiche.

Il contributo di Mike Raco e Tuna Tasan-Kok riguardo le «(in)visibili ambiguità» delle riforme urbanistiche pilotate dalle multinazionali del mercato immobiliare, evidenzia come queste abbiano approfittato della crisi del welfare state, per determinare la configurazione degli attuali ambienti urbani. Dai reciproci osservatori universitari di Londra e Amsterdam, i due studiosi spiegano come l’interdipendenza tra le istituzioni pubbliche e il mercato non consente di superare le ingiustizie generate da pratiche di policy-making egemonizzate dagli attori del reale estate alleati degli investitori finanziari.

CREDERE A UN MODELLO di pianificazione che sia esente da «ambiguità» è, quindi, un’«illusione ideologica». Vale la compiacenza con la quale le amministrazioni pubbliche deregolamentano l’uso dei suoli e la zonizzazione delle aree, legittimano normative a beneficio solo di alcuni gruppi sociali, allocano i rischi privilegiando l’investitore immobiliare, del quale ne incorporano le modalità lavorative e ne soddisfano i tempi di attuazione dei progetti fondati sugli alti profitti in grado di generare. In particolare, consentono il patchwork spaziale con il quale si distribuiscono disordinati nella città i diversi interventi immobiliari.

L’instabilità causata dalla «tensione strutturale» che la crescente dipendenza dal mercato esercita pone una domanda: come si proteggono gli interessi pubblici, ovvero quelli dei cittadini? Nonostante sia scontato che nella flessibilità del mercato anche i cittadini e le comunità urbane trovano spazio con i loro progetti collettivi, tra autocostruzione e cooperazione, si è così certi, come sostengono nelle conclusioni Raco e Tasan-Kok, che «questi esercizi cambieranno lo sviluppo delle città e creeranno connessioni sociali più visibili»?

Come illustra Agostino Petrillo, nelle periferie, dove in maggior misura troviamo abitanti che esprimono le loro «forze positive ed energie», perdura l’invisibilità di chi è «svantaggiato»: prodotto di «trascuratezza colpevole» e di «disattenzione quasi involontaria».

Martin Roemers, Londra (2014, © Martin Roemers)

SULLA SCORTA della sociologia di Pierre Bourdieu e la tradizione fenomenologica di Merleau-Ponty, Petrillo spiega che nelle varie classi sociali si sedimenta una diversa «coscienza della condizione», la quale, in chi è in difficoltà, si manifesta nella remissiva consapevolezza della distanza che lo separa da chi è fuori lo «spazio periferico», per cui l’«invisibilizzazione», oltre che essere sinonimo di emarginazione, diventa spesso «autoesclusione».

In tempi dove l’idea della fine della periferia nutre il pensiero mainstream di architetti e urbanisti, rendere visibili proprio le periferie, con i loro intrecci sociali, antropologici e spaziali, è un compito non più differibile.

CHE LA QUESTIONE sia il superamento della dicotomia tra «Città degli inclusi» e della «Città degli esclusi» è ciò che auspica Paolo Perulli. Ricomporre per lui i conflitti tra «neoplebi», «classi creative» e «élite», affinché si attui la «convivenza pacifica», potrebbe rappresentare l’ultima utopia da realizzare.

Sotto le fattezze di eco-city o green-city si concentra una grande folla di sostenitori: tutti stakeholder votati al «bene pubblico»? Qualche dubbio sorge se non si affronta il nodo di come si possono modificare radicalmente gli odierni assetti politici dominanti, insofferenti a qualsiasi processo d’inclusione e di sostenibilità, come hanno dimostrato le recenti conferenze mondiali sul clima.

Il cambiamento del clima è un’altra invisibilità che per decenni è stata «alleata di chi – scrive Roberto Mezzalana – per difendere i propri interessi negava l’esistenza stessa del fenomeno e seminava dubbi sulle sue basi scientifiche».

Mumbai, India

LA STRUTTURA URBANISTICA delle città incide sensibilmente nelle emissioni di gas serra e dove non sono previste strategie di resilienza e più marcate sono le disuguaglianze sociali, gli eventi climatici estremi sono una tragedia che colpisce in prevalenza i ceti più poveri: si è visto con l’uragano Katrina nel 2005 e in altri numerosi casi.

In merito ai modelli di governance delle comunità urbane e ai processi decisionali che li caratterizzano, il racconto di Pierre Filion sulla linea metropolitana leggera a Waterloo (Canada) è indicativo di quanto approssimativi siano i criteri adottati dai governanti per decidere. La scelta di questo tipo di infrastruttura si fondava sulla volontà di contrastare l’uso dell’automobile e rivitalizzare le aree da essa attraversate, ma una volta in esercizio risultò un fallimento che causò solo l’aumento dei costi delle abitazioni per le fasce più deboli. È questo un caso-studio che mostra quanti errori a volte contiene la pianificazione che segmenta la realtà in aspetti visibili e invisibili invece di considerarla nella sua totalità.

Gli «Annali» dedicano una speciale attenzione ovviamente anche alla portata della digitalizzazione nelle modificazioni urbane. Il tema è trattato da Giovanni Azzone, che spiega come le infrastrutture digitali definiscono i luoghi dell’insediamento di aziende e imprese configurando «ecosistemi competitivi».

Piercesare Secchi riflette sulle potenzialità che hanno i big data e algoritmi generati dalle comunità urbane che combinati con l’Intelligenza artificiale, potranno essere «strumenti attuatori di politiche di precisione», transitando da ciò che oggi sanno solo descriverci alle possibilità di «costruire previsioni».

Infine, Mara Ferreri, illustra come le piattaforme digitali hanno «normalizzato» la vita nelle città nelle pervasive pratiche del loro impiego al punto da doverle considerare uno «strumento di opacizzazione dell’urbano» se solo, ad esempio, si analizza come Airbnb ha imposto le sue regole nel mercato degli affitti.

C’è ancora molto da comprendere sui fenomeni urbani nelle loro complesse configurazioni materiali e immateriali. Dalla lettura degli «Annali» scaturisce che non sono concesse scorciatoie per raccontare la città, considerando quanto vi è ancora di nascosto al nostro sguardo.