Gli iracheni, o la maggior parte di essi, non amavano gli Usa e neppure ascoltavano le dichiarazioni da bravi padri della famiglia democratica globale che dispensavano in quei giorni George W. Bush e il suo segretario di stato Colin Powell. La guerra anglo-americana giunta dopo 12 anni di sanzioni economiche durissime li aveva sfiniti oltre ad aver reso più bambini orfani, più donne vedove, più giovani disabili.

Però erano felici che non ci fosse più Saddam Hussein al potere. Era odiato e temuto da milioni di iracheni, non solo dagli sciiti. Il suo potere immenso, la sua brutale determinazione a spegnere nel sangue ogni accenno di ribellione, apparivano a molti in quei giorni di venti anni fa come una storia passata per sempre.

ANCHE I CRISTIANI iracheni, ritenuti protetti dal regime, non amavano Saddam ma sapevano, come gli anni successivi avrebbero dimostrato, che il crollo del suo potere li avrebbe esposti a un magma incontenibile di fanatismo religioso. Furono queste le prime impressioni che ricavammo dopo l’arrivo a Baghdad, al termine di un viaggio di mille chilometri da Amman nel deserto a bordo di un furgone.

Pregavano ovunque gli sciiti, in quei giorni successivi alla caduta del regime. Le loro preghiere erano raduni immensi, i riti si trasformavano in comizi. I partiti, vecchi e nuovi, i comunisti come gli islamisti aprivano nuove sedi. Rinascevano le associazioni, si riunivano artisti e intellettuali, non poche volte si vedevano insieme chi era stato dalla parte del regime e chi lo aveva criticato.

Il Baath di Saddam Hussein invece si disintegrava sotto i colpi degli occupanti anglo-americani. Sarebbe rimasto in vita in clandestinità, assieme a formazioni jihadiste e ai resti delle forze armate sciolte dai nuovi padroni dell’Iraq. Gli effetti di quelle decisioni Usa si sarebbero rivelati devastanti qualche mese dopo per gli occupanti stranieri come per i civili iracheni costretti a fare i conti con attentati a raffica e all’inizio della lotta armata contro l’occupazione.

Moriva di fame l’Iraq. Tranne Baghdad e qualche città, il paese era in uno stato di immenso degrado e povertà, soprattutto il sud. Gli iracheni camminavano su enormi riserve di petrolio ma dovevano lottare ogni giorno per mangiare. La popolazione dipendeva dalle distribuzioni di beni di prima necessità. E il dinaro, la valuta nazionale, non valeva niente dopo l’invasione.

Pochi dollari corrispondevano a una busta di plastica colma di centinaia di banconote da 500 dinari su cui era stampato il volto di Saddam. Ci volevano un bel po’ di quei pezzi di carta per comprare una birra tenuta sotto ghiaccio da ragazzini piazzati strategicamente all’ingresso del Palestine e degli altri malandati hotel di Baghdad pieni di giornalisti, operatori umanitari, politici, pacifisti e altri ancora.

I funzionari Usa già si sistemavano in quella che sarebbe presto diventata la Zona verde. Da quelle parti la notte si rischiava di fare brutti incontri ai checkpoint degli occupanti. I soldati americani, con i nervi a fior di pelle, ti puntavano subito i mitra contro, poi faccia al muro, mani sopra la testa, perquisizione e controllo documenti. Inutile invocare rispetto per la stampa.

Un drammatico esempio delle loro «speciali» regole d’ingaggio – «prima sparo poi parlo» – si sarebbe reso evidente il 4 marzo di due anni dopo quando un militare americano aprì il fuoco contro l’auto che portava in salvo la nostra Giuliana Sgrena, sottratta appena qualche ora prima ai suoi sequestratori. I colpi uccisero Nicola Calipari.

AHMAD SI OFFRÌ di farci da guida e producer in quelle prime settimane dopo l’invasione dell’Iraq. Era stato un pilota di Mig e Sukhoi dell’aviazione militare. E aveva fatto parte degli equipaggi che all’inizio della prima guerra del Golfo nel 1991, su ordine di Saddam, a sorpresa portarono oltre 100 cacciabombardieri in tre basi iraniane.

«Eravamo pronti a combattere gli americani e invece Saddam ci spedì in Iran. Non ho mai capito quella decisione. Nel 1992 fui congedato e per 11 anni ho ricevuto 50 dollari di pensione al mese, roba da morire di fame. Ho fatto molti lavori per tirare avanti», ci raccontò. Girando in auto quei giorni, ci passarono davanti agli occhi l’Iraq di quei giorni. E di quelli a venire.

La povertà estrema, le distruzioni e i lutti della guerra voluta dall’Occidente democratico, i palestinesi cacciati dalle loro case perché considerati amici di Saddam, l’astio tra sunniti e sciiti, il fiorire di una religiosità estrema che da decenni covava sotto la cenere. A Tikrit, la città di Saddam, la nostra auto fu circondata da una folla ostile che ci urlava «Vai via, qui non è casa tua».

Accadde, scoprimmo, a tanti altri stranieri. Se solo gli occupanti avessero ascoltato e accolto subito quella minacciosa esortazione, l’Iraq e molte famiglie nel mondo avrebbe pianto meno morti.
Difficile dare un bilancio certo: tra cause dirette e indirette si arrivano a stimare fino a un milione di morti.

(michele giorgio)

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«Qui nessuno si sente più iracheno. Siamo sciiti, sunniti, cristiani. Siamo arabi, curdi, turkmeni, ezidi. L’Iraq non esiste più, gli iracheni non esistono più». Novembre 2015, a Kirkuk fa freddo. La città è blindata, sventolano le bandiere del Kurdistan iracheno, i muri tappezzati col volto del suo immortale presidente, Masoud Barzani. Dall’assalto dell’Isis, un anno prima, il serbatoio di petrolio del paese è in mano al governo regionale curdo. Non ci resterà per molto: le milizie sciite filo-iraniane lo riconsegneranno a Baghdad nel 2017.

Fuori dalla città, sopravvivono in baracche gelide centinaia di migliaia di sfollati. Sono una porzione dei milioni di iracheni fuggiti dalle squadracce dell’Isis che nel giugno 2014 qui si è fatto Stato. Gli sfollati non hanno nulla. Non hanno casa, hanno poco cibo, quasi nessuna cura medica. Hanno però una convinzione, dalle bocche semichiuse esce come un refolo, gelido anche questo: «Nessuno qui si sente più iracheno».

ALLA FINE ci sono riusciti: la ferocia manichea dello Stato islamico ha completato il processo avviato con il settarismo istituzionalizzato imposto dall’occupazione anglo-americana e accolto con giubilo dai nuovi leader politici iracheni. Privi di reale autorità, l’unica legittimazione possibile era l’appartenenza etnica e religiosa. Su quella – e sulla distribuzione di favori e prebende – hanno fondato il loro consenso. Gli iracheni si sono ritrovati divisi in gruppi confessionali ed etnici, invece che sociali. E al conflitto – sociale, appunto – si è sostituito quello settario. Fino al 2019.

«Ho molto di più in comune con una ragazza sunnita che non trova lavoro che con uno sciita che grazie al governo si è costruito un impero». Kareema ha 23 anni, è sciita e ha passato mesi a piazza Tahrir. Aiutava nella preparazione del cibo nel presidio permanente. È lì che si è tolta il velo per la prima volta ed è lì che per la prima volta ha sentito parlare di giustizia sociale, uguaglianza, laicità dello Stato, fine dei settarismi.

Oggi, 25 maggio 2021, a Tahrir ci è tornata insieme a decine di migliaia di irachene e iracheni: chiedono conto delle sparizioni forzate, almeno 35 attivisti ammazzati per strada, in pieno giorno, e tanti altri mai ritrovati. Fa caldo, la piazza è un forno, ma la kefiya sul volto meglio tenerla, protegge dal muro di occhi degli agenti anti-sommossa. Che sparano: a sera si contano cinque morti. «Ora usano un nuovo metodo, la sparizione forzata. Se manca il corpo, non è necessario indagare, è questa l’idea. È un metodo alternativo per zittire la protesta. Il silenzio. Che differenza c’è con la morte?».

(chiara cruciati)