La questione dei migranti, l’accoglienza, l’umanità, non rientrano nella governance dell’Unione europea. Un insieme di regole ben codificate garantiscono la libera circolazione di capitali e merci.

Ma non delle persone che fuggono dalla fame e dalla sete. Nel Patto europeo di stabilità e crescita, la «stabilità monetaria» e la «crescita economica» sono declinate come valori in sé. Tutto – il lavoro, il welfare, l’ambiente – viene subordinato all’equilibrio dei conti pubblici e alla crescita del Pil. Sono le comunità e i cittadini a doversi adeguare al mondo delle imprese e della finanza.

Un rovesciamento di prospettiva che ha elevato la «compatibilità economica» a metro di misura fondamentale delle riforme e dei provvedimenti economici. Il welfare sociale è retrocesso a welfare compatibile. Il muro contro muro tra Italia e Francia riflette uno schema in cui, per dirla tutta, esiste un accordo di fondo sulla netta separazione tra fasce sociali che rientrano nella logica della «spese compatibili» e ceti esclusi ed emarginati (insider e outsider).

I migranti, specie se provenienti dall’Africa, sono per definizione esclusi. Chiusure nazionali e difesa di condizioni privilegiate sono destinate a rafforzarsi a causa delle gravi emergenze che ci attanagliano (clima, pandemia, guerra) e della crisi della globalizzazione. L’impegno dell’Ue e dei governi nazionali è massimo per attenuare l’impatto negativo della crisi sull’economia, ma vengono centellinati gli aiuti alle fasce deboli.

Il criterio delle compatibilità economiche vale per i salari e per lo Stato sociale, non vale per gli imprenditori e per i ceti agiati, pronti, com’è noto, a invocare la deregulation quando le cose vanno bene. La compatibilità, a seconda dei momenti, assume il volto dell’austerità o della negazione di politiche redistributive. L’importante è sostenere «chi sta dentro», chi produce ricchezza, e chi «sta fuori» si arrangi come può. Una visione cinica, che aggrava le ingiustizie generate dal sistema capitalistico e le fissa come un dato naturale e immutabile. Perfino il mix esiziale di inflazione e recessione non scalfisce, nelle classi dirigenti italiane ed europee, il mito della crescita (quantitativa) dell’economia quale toccasana di ogni male.

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Il punto politico è che proprio un certo europeismo acritico e subalterno alimenta il vento populista e sovranista. Norme, circolari, direttive dell’Ue, volte ad allargare gli spazi di mercato, non sono certo gli strumenti più idonei per costruire un’identità europea che coltivi i valori di democrazia e solidarietà. I famosi «parametri di Maastricht», invece di favorire l’integrazione, provocano divisioni tra paesi del Nord (frugali) e paesi del Mediterraneo e fanno emergere incomprensioni e dissapori nello stesso nucleo dei paesi fondatori. Con l’allargamento a Est si è poi verificato un ripiegamento verso una sorta di Europa delle Nazioni, meno unita e stabile, più debole e disponibile ad assecondare gli interessi economici e geopolitici degli Stati Uniti.

Così nell’Europa del diritto e delle libertà, culla della civiltà occidentale, avanza una concezione reazionaria dello Stato e della politica, una logica identitaria che tende ad escludere le diversità, presentate come una minaccia al benessere e all’ordine costituito. Tutto ciò che non è omologabile sotto il minimo comune denominatore del denaro e della merce e non rientra nel conformismo dei modelli di vita e di consumo, suscita volontà persecutoria, discriminazione e violenza verso l’altro, in qualsiasi forma si presenti: donna, nero, anziano, bimbo, povero, drogato, rom.

Le forze del Pse, tra cui il Pd, si sono adagiate in un ruolo minore, quasi irrilevante, rispetto a questa deriva culturale, politica e morale. Abbagliate dal liberismo dominante, hanno di fatto rinunciato alla battaglia per un’Europa federale, democratica e autonoma, come era nel disegno dei padri fondatori. Non hanno spinto, come avrebbero potuto, per una politica comune in materia di bilancio, di fisco, di welfare, di ambiente, di politica estera, di difesa.

Le stesse decisioni comuni assunte sull’emergenza Covid-19 non hanno inaugurato un nuovo corso, come si sperava, ma sono state subito contraddette da visioni e interessi contrapposti sul modo di affrontare la crisi energetica.

E’ iniziata, in questi giorni, la discussione sulla revisione del Patto di stabilità e crescita che, tra le altre cose, prevede una maggiore flessibilità di bilancio per i paesi che investono in beni pubblici europei. Belle parole, se non fosse che per «investimenti in beni pubblici europei» si intendono le spese per la difesa e per fronteggiare la scarsità di energia. Possiamo indebitarci, ma per la produzione di armi o per l’estrazione di carbone, metano e petrolio. Tutto ciò con il beneplacito del Pse.

Siamo del tutto lontani dalla lezione di Marx, il primo a ipotizzare un processo materiale, pratico, di riconciliazione della produzione con la vita collettiva e dell’uomo con la natura.