Esaltata come modello da imitare o descritta come il nostro prossimo grande nemico, la Cina è sempre più presente nei dibattiti nostrani, talvolta perfino in modo ossessivo. Qualsiasi cosa succeda, da una guerra come quella in Ucraina, all’acquisizione da parte di Elon Musk di Twitter, ci si chiede «e la Cina che fa?».

Questa presenza costante, talvolta esplicita, altre volte tra le righe, non ha però prodotto una maggior conoscenza della Cina, anzi. La polarizzazione che applichiamo ormai a qualsiasi discussione, sia una pandemia o una guerra in Europa, porta anche la Cina all’interno di un dualismo limitato e ristretto: o bianco o nero. C’è bisogno dunque di traduzione culturale, di ponti in grado di fornirci qualche appiglio per andare oltre le apparenze e soprattutto oltre i nostri pregiudizi, perfino quelli più sfumati o che crediamo di non avere.

La Cina è già qui (Mondadori, pp. 149, euro 18) di Giada Messetti ci viene dunque in soccorso. Se già nel precedente libro (Nella testa del Dragone sempre per Mondadori) Messetti spiegava l’origine e le ragioni della postura interna e internazionale della Cina, esponendo il contesto all’interno del quale osservare le azioni di Pechino, ne La Cina è già qui il tentativo è quello che contrassegna l’attività editoriale e di divulgatrice dell’autrice: spiegare in modo semplice ma rigoroso quali sono alcune basi della cultura cinese.

LO SCOPO È DUPLICE: da un lato è quello di avvicinarci alla Cina, provare a fare il vuoto, spostare il nostro sguardo e comprendere le tante leve della cultura cinese, dall’altro è quello di dotarci degli strumenti per produrre in modo autonomo un pensiero sulla Cina al di là del rumore di fondo. Lo sforzo dell’autrice è infatti quello di fornire delle coordinate, delle chiavi di lettura, per riscontrare caratteristiche, forze e debolezze dell’attuale postura cinese, in modo da trarne conseguenze per una finalità ben precisa: comprendersi, capirsi, ascoltare e infine giungere a qualche forma di compromesso anziché a uno scontro frontale.

Messetti parte dalla scrittura, dai caratteri cinese, dai non detti e le assenze che ne conseguono, fino alla questione della faccia, della vergogna, per portare il lettore su una apparente superficie (con i suoi lati anche divertenti e curiosi) che lascia intendere però profondità sconosciute. Ad esempio la mancanza, nel cinese classico, del verbo essere «nell’accezione di esistere». Una cosa può essere «bella o brutta, grande o piccola, ma non può essere e basta».

LE CONSEGUENZE? Scordatevi Parmenide e Cartesio o il celebre «essere o non essere» shakespeariano che in cinese suonerebbe come «essere o annientarsi»? Il risvolto filosofico di questa caratteristica riscontrabile a partire dalla scrittura cinese lascia presagire baratri di incomprensione notevoli, che Messetti però sistema all’interno di un discorso più generale attraverso l’analisi di altri elementi salienti di quella che noi occidentali chiameremmo «essenza» cinese. A partire da Confucio, dal daoismo, attraverso esempi che rimandano di continuo dalla cultura popolare ad abissi filosofici.

Se Mulan ci insegna il senso cinese della pietà filiale (le cui ricadute sono riscontrabili poi nell’attività politica del Partito comunista cinese), Messetti affida all’artista Li Kunwu (autore di una trilogia a fumetti sulla storia del paese per Add Editore) l’impervio ruolo di spiegare cosa intendano i cinesi per memoria e alla pratica dello «shanzhai» il ruolo di spiegarci perché anche «copiare» può diventare una sorta di processo innovativo. Tasselli di un’anima che probabilmente non saremo mai in grado di afferrare ma che ci converrà al più presto conoscere, quanto meno nelle sue pieghe più visibili anche a noi occidentali.