Gli svizzeri lo chiamano Matterhorn. Gli italiani Cervino. Ma per tutti, nella Valle, è la Gran Becca. La cima piramidale della Valtournenche è la montagna per antonomasia. La sua bellezza è il metro di paragone per tutte le altre vette del mondo. L’angolo acuto che anche i bambini disegnano, immediatamente, quando pensano a una montagna.

È sulla parete Nord del Cervino, nell’inverno del 1965, che Walter Bonatti, l’«uomo del Monte Bianco», ha voluto terminare a soli 35 anni la sua carriera alpinistica (per intraprendere poi quella di viaggiatore e narratore dell’estremo). Non c’è nulla di meglio al mondo.

[do action=”quote” autore=”Walter Bonatti”]«Dopo il Cervino, non posso trovare un’altra montagna che mi offra una storia più bella; per questo che l’ho scelta come l’atto finale della mia carriera»[/do]

Il libro di Hervé Barmasse La montagna dentro (Laterza, pp. 236, euro 18), è qui che inizia e finisce. Guadagna spessore pagina dopo pagina, seguendo l’età del protagonista, dalla spensieratezza degli inizi alla maturità di una carriera sportiva che è innanzitutto un’irripetibile avventura umana.

Questa storia comincia con un terribile incidente sugli sci, a 16 anni, in gara. Ginocchia sbriciolate, legamenti andati, fratture multiple. Una carriera agonistica finita ancora prima di nascere. Ma il giovanissimo Barmasse è figlio di una guida alpina celeberrima, Marco. Una famiglia di guide del Cervino che con lui arriverà alla quarta generazione.

Dopo la velocità e la leggerezza degli sci, grazie al padre, il giovane Hervé scopre la lentezza della progressione verticale. La stanchezza dell’avvicinamento infinito alle montagne della Patagonia o del Pakistan. Roccia e ghiaccio delle Alpi, delle Ande, dell’Himalaya. Alcune imprese fallite (la Nord dell’Ogre in Pakistan o il Cerro Riso Patron in mezzo allo Hielo Continental Sur cileno), altre riuscite, come la prima Nord Ovest del Cerro Piergiorgio (1150 metri durissimi, in Patagonia, insieme a Cristian Brenna), il Beka Brakai Chhok in Karakorum (con Simone Moro nel 2008).

Ma è soprattutto sulle montagne di casa, le Alpi, che Barmasse dimostra la bellezza della sua filosofia alpinistica, la determinazione delle sue «solitarie» sul Cervino (la prima, a 20 anni, sulla via Carrel della Becca d’Aran), l’apertura di nuove vie.

herve barmasse sul cervino nel 2008 foto lapresse
Hervé Barmasse sul Cervino nel 2008 – foto Lapresse

Uno dei passaggi più commoventi del libro è la scalata con cui padre e figlio riescono per primi a superare il canale sud della Gran Becca, il couloir dell’Enjambée, «un colatoio senza ghiaccio e senza la possibilità di proteggersi, placche lisce, verticali, coperte di neve zuccherosa».

Era il marzo del 2010, inverno. Marco Barmasse aveva 61 anni. Suo figlio 32, quasi la metà. Arrivano in cima al Cervino insieme.

Racconta Marco nel libro: «A una ventina di metri sopra la mia testa, Hervé sta ravanando su un passaggio rognoso e improteggibile, tra noi c’è solo un friend (una protezione a camme, ndr). Mentre lui tenta di forzare il passaggio e per un paio di volte viene respinto mi chiedo cosa ci faccio lì ad assistere in diretta a un’eventuale caduta di mio figlio, riesco solo a dire: ’Hervé, si fa tardi, prova ancora una volta, se non va scendiamo’. Guardandolo mi chiedo come potrebbe scendere senza cadere, poi non so come, non so quando, riesce a superare il passaggio e io riprendo a respirare. Essere padre e alpinista in quella situazione non lo augurerei a nessuno».

Da quel giorno il canalone si chiama couloir Barmasse.

Come per Bonatti, la Gran Becca è l’alfa e l’omega dell’alpinismo. E dopo lo scalatore bergamasco mezzo secolo prima, Barmasse è il primo ad aprire una via nuova sul Cervino, in solitaria invernale, 1200 metri sulla friabile parete Sud Est fino al Picco Muzio e poi alla vetta.

Insieme alla scalata col padre, l’esperienza in Pakistan nel 2010, nel villaggio di Shimshal, è un po’ la chiave di volta del libro, forse della vita. Gli europei hanno voluto «aprire» una scuola di alpinismo per restituire un po’ del tanto che hanno preso da quei luoghi. In quel villaggio sperduto di 2mila anime al confine con la Cina, 15 uomini e 10 donne Hanza hanno appreso i rudimenti della sicurezza, dei nodi, dell’accompagnamento in montagna, per diventare guide o sherpa e migliorare enormemente le condizioni di vita delle proprie famiglie.

A margine di questa «scuola», Barmasse subisce l’ennesimo incidente. Che stavolta non lo ferisce tanto nel fisico quanto nell’animo. Segnando l’attraversamento di quella linea nera tra la vita e la morte che ogni alpinista mette in conto ma non conosce finché non la supera.

Scalando Badur Die, una cascata di ghiaccio stupenda lunga 50 metri, sopra l’ultimo chiodo, una valanga di sassi e neve violentissima ed enorme lo investe. Barmasse rimane appeso solo per una piccozza, per miracolo riesce a non precipitare. Scenderà incolume, sotto shock.

La montagna è questo. «A volte ce ne dimentichiamo, ma il Cervino è la misura della nostra piccolezza», scriverà nel suo libro.