Il pretestuoso caso dello scioglimento per infiltrazioni mafiose del comune di Bari riporta alla luce un altro caso di verità raccontata al contrario: il mancato scioglimento del Comune di Fondi (provincia di Latina). Una decisione adottata con la partecipazione di Giorgia Meloni, all’epoca ministro della Gioventù, che attende ancora la dovuta spiegazione visto che tutte le accuse formulate a suo tempo dagli organi inquirenti sono state confermate dai Tribunali.

Dal 1991, anno di approvazione della legge che ha istituito la procedura di accertamento, lo scioglimento di un ente pubblico per infiltrazioni mafiose (quasi 200 all’epoca dei fatti) non era mai stato negato. Fu così fino a quando la procedura non toccò un comune «intoccabile»: quello di Fondi, sede del secondo mercato ortofrutticolo d’Italia e “regno” del Senatore Claudio Fazzone (Forza Italia). Area che numerose sentenze hanno accertato essere luogo di residenza e di affari di boss mafiosi.

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All’inizio del mese di ottobre 2009 il ministro dell’interno Roberto Maroni (quarto governo Berlusconi) aveva portato per la terza volta la ratifica del decreto di scioglimento del comune. Ad alcuni ministri, infatti, non erano bastate le due precedenti relazioni della Commissione d’accesso istituita dall’allora prefetto di Latina Bruno Frattasi (poi prefetto di Roma) con le quali si documentavano una serie di accuse gravissime: estorsione, usura, spaccio di droga, appalti affidati senza gara, abusivismo edilizio, voto di scambio e via elencando. Buona parte di queste attività illecite erano gestiti dai fratelli Tripodo, figli di Domenico (detto Mimmo), già appartenenti a una riconosciuta ‘ndrina calabrese che a Fondi aveva trovato terreno fertile. Non a caso le intimidazioni erano all’ordine del giorno.

Nel frattempo era partita l’operazione “Damasco” che dopo due anni di indagini, il 6 luglio del 2008, portò agli arresti, tra gli altri, dell’ex assessore comunale Riccardo Izzi, dei dirigenti comunali dei lavori pubblici, attività produttive e bilancio, del comandante dei vigili urbani e del suo vice, oltre che di alcuni consiglieri comunali di maggioranza tra i quali un parente del sindaco.

La prima richiesta di scioglimento firmata da Frattasi fu rispedita indietro con motivazioni a dir poco ridicole: Berlusconi affermò pubblicamente che nell’inchiesta «non c’erano politici indagati». La stessa sorte seguì anche la seconda richiesta, anche se Maroni aveva promesso il contrario, per due volte, in parlamento. Anche le intimidazioni politiche erano diventate una prassi: esemplare fu il caso del comizio tenuto da David Sassoli per le elezioni europee del 2009 e al quale l’amministrazione comunale ancora in carica fece trovare un palchetto di due metri per due. Gli intervenuti però non poterono ascoltare cosa aveva da dire il futuro presidente dell’europarlamento perché contemporaneamente l’amministrazione comunale aveva organizzato una festa paesana con musica a tutto volume e spari di fuochi artificiali assordanti.

Si arrivò così all’inizio dell’ottobre 2009 quando Maroni portò in Consiglio dei ministri la terza richiesta di scioglimento, ma anche in quel caso ci fu un colpo di scena: il ministro Renato Brunetta (Forza Italia) disse che quel provvedimento era ormai inutile perché il giorno dopo sindaco e intera maggioranza si sarebbero dimessi. Il tutto sotto gli occhi aperti di Giorgia Meloni.

La stragrande maggioranza dei soggetti coinvolti nell’inchiesta Damasco fu rieletta nella primavera successiva e proseguì indisturbata nel suo percorso politico. Tra questi troviamo due attuali parlamentari europei, rispettivamente l’ex sindaco di Fondi De Meo e l’ex sindaco di Terracina Procaccini: quest’ultimo già addetto stampa di Meloni ministra della gioventù.