Che intrecci significativi suggeriscono gli anniversari, in particolare questi centennali, sessantennali, cinquantennali accavallati attorno al ‘68 e ‘69, che furono gli anni di un’insorgenza che induceva a riscoprire un marxismo più vicino alle domande del presente. Solo una settimana fa è stato naturale allacciare il ’59 della rivoluzione cubana e il Che al nostro sessantotto. E ora Rosa Luxemburg, che per noi fu, ancora una volta nel 68, una scoperta determinante. Perché noi non avevamo messo in discussione solo la linea del Pci e dei sindacati, ma lo stesso modo di essere di queste istituzioni della classe ormai largamente burocratizzate; così come la deriva autoritaria dell’Unione sovietica. Tutti temi che avevano spinto la grande Rosa a ricercare nuove soluzioni.

Dico scoperta della martire rivoluzionaria spartachista, perché nella cultura comunista ortodossa di questa marxista sempre un po’ eretica, che si azzardò a criticare Lenin ( che tuttavia continuò a definirla «un’ aquila») avevamo sempre saputo poco.

Ma nei fantastici anni ’60 l’Italia aveva cominciato ad aprirsi alle correnti marxiste maturate fuori dall’alveo ufficiale; e così anche Rosa giunse fra noi. Immediatamente insediandosi, come punto di riferimento essenziale, nel cuore del Sessantotto; e, naturalmente, de Il Manifesto.

A portarcela fu soprattutto Lelio Basso, questo singolare socialista di sinistra, che con la sua rivista «Problemi del socialismo» aveva già e non poco contribuito ad allargarci la testa. Lo fece pubblicando, con una sua introduzione, un illuminante volume di scritti di Rosa Luxemburg, che aiutò la ricerca che i compagni che poi dettero vita al Manifesto, Magri e Rossanda in particolare, erano già andati conducendo sulla tematica consiliare e sul rapporto spontaneismo/partito. Che è poi il tormentato problema della coscienza di classe: se nasca dalla e nella prassi della lotta, o se sia portata, e come, dall’esterno.

A provarlo basti sfogliare i numeri del Manifesto rivista e ritrovare un prezioso volume – «Classe, consigli e partito», quaderno n.2, pubblicato nel giugno 1974 dal nostro editore di riferimento, Alfani – che raccoglie scritti di Magri, Maone, Rossanda e un’intervista a Jean Paul Sartre.

Per Rosa Luxemburg la tematica consiliare era molto importante: costituiva la critica ai limiti del governo dei commissari del popolo in Russia senza tuttavia accettare l‘ipotesi del parlamentarismo borghese. A parte qualche frangia che aveva con qualche faciloneria pensato bastasse affidarsi alla mera spontaneità, noi fummo conquistati dall’ipotesi, delineata da Rosa Luxemburg, di costruire questa terza struttura, esercizio di un potere dal basso, capace di mediare fra partito e movimento e di riappropriarsi della gestione della società: i consigli per l’appunto.

Rosa vi aveva accennato anche nella sua critica al gruppo dirigente bolscevico, facendo notare che la scomparsa delle classi non rende di per sé univoche le opinioni e che dunque la soppressione delle libertà politiche non colpisce solo i nemici, ma si ritorce fatalmente contro la classe che la decide, perché si traduce in isterilimento della ricerca e nella burocratizzazione.

Rosa, in realtà, sebbene proprio di questo sia stata rimproverata dall’Internazionale, spontaneista non è stata mai, né mai ha negato l’importanza di un’avanguardia organizzata, il partito, giacché la classe ha bisogno – ha sempre sostenuto – di una strategia unificante. E però anche di arrivare a prendere il potere avendo costruito organismi capaci di assumersi la gestione della società, che non poteva essere tutta assorbita dal solo partito o dallo stato.

È proprio a questa ipotesi consiliare che anche Gramsci lavorò già ai tempi dell’Ordine Nuovo, assai più esaurientemente nei «Quaderni dal carcere», riprendendo l’idea luxemburghiana di dar vita a forme permanenti di democrazia organizzata, espressione di un potere che via via si sostituisce a quello storicamente espropriato dallo stato. I Consigli di fabbrica (e poi quelli di Zona) che cominciano a sorgere nel ’69, pur con tutti i loro limiti, a questa prospettiva intendevano rispondere: organismi politici e fuori dalla dimensione puramente sindacale, non istituiti per gestire la fabbrica, ma anzi per contestarne il suo modello di produzione.

Il Pci, e il sindacato, non prestarono attenzione alle potenzialità che quell’esperienza aveva sollecitato, così perdendo la grande occasione di fondarvi la propria rivitalizzazione. Noi troppo deboli per andar oltre un pur ricco contributo alla riflessione e a qualche significativa esperienza pratica. Oggi però la sua attualità ci si ripresenta con forza, proprio per affrontare la crisi grave della democrazia rappresentativa che viviamo non solo in Italia.

Per dare una risposta positiva alla richiesta di forme di democrazia diretta che salgono dalla società, ma senza cadere nella demagogia del ricorso ai referendum, o nella democrazia digitale ridotta ad un non meglio identificato «clic», oppure fermandoci ad evocare i meriti della democrazia rappresentativa, che senza adeguate forme di partecipazione, perde sempre più di senso. Né richiudendosi nello sterile confronto su partiti sì partiti no, bensì attrezzandosi a costruire gli strumenti suggeriti da Rosa e poi da Gramsci per impedire la loro involuzione autoreferenziale e dare concretezza all’idea della rivoluzione come un processo che muove dalla società.