Alessandro Magno nel 331 a. C., dopo aver percorso i circa cinquecento chilometri di deserto che separano Alessandria dall’oasi di Siwa, si recò da uno dei più importanti oracoli del mondo antico. Qui un aspetto particolare del dio egiziano Amon dalla testa di montone dispensava responsi ai pellegrini che, secondo la testimonianza degli storici romani Plinio e Solino, raccoglievano come souvenir pietre a forma di corno d’ariete, capaci di indurre sogni profetici ai dormienti. L’intento di Alessandro era di vedere legittimata la conquista dell’Egitto attraverso la proclamazione della sua discendenza divina dalla stessa bocca del dio. Il nume oracolare di Siwa, non era tuttavia sconosciuto al mondo greco. Da tempo infatti i Greci individuavano nell’Amon adorato nelle oasi libiche, una manifestazione di Zeus, re degli dei olimpici. Le fattezze di Zeus-Ammone assommavano alcuni dei tratti peculiari di entrambi gli dèi: l’iconografia classica ci ha tramandato l’immagine di uomo barbuto, dotato di folta capigliatura da cui spuntano le corna – e talvolta anche le orecchie – di montone.

L’avventuroso pellegrinaggio del Macedone al celebre oracolo non si svolse dunque in una terra incognita, né la scelta della destinazione fu casuale e priva di risvolti e implicazioni. L’accettazione del giovane condottiero greco come figlio di Zeus-Ammone e legittimo sovrano delle Due Terre rappresentò infatti l’apice e il punto di svolta di una lunga tradizione di rapporti che, almeno dal III millennio a. C., aveva legato l’Egitto al mondo greco. Proprio i contatti tra i popoli affacciati sulle sponde opposte del bacino orientale del Mediterraneo, prima dell’avvento di Alessandro il Macedone e della successiva ascesa della dinastia tolomaica, sono l’oggetto dello studio di Alessandro Piccolo, L’Egitto e la Grecia Popoli, idee e culture nel Mediterraneo dal III millennio al IV secolo a. C. (Carocci editore «Studi Superiori», pp. 254, euro 25,00).

Il volume è strutturato in otto capitoli nei quali Piccolo mette in fila una gran mole di esempi dell’influenza che le due culture esercitarono l’una sull’altra, non di rado attraverso il fondamentale filtro rappresentato dall’elemento semitico dell’Asia occidentale. Non è trascurato alcun aspetto: sono presi in analisi la storia, la letteratura, la mitologia e la religione. L’autore, tradendo così la sua formazione filologica, ha consacrato anche un capitolo – forse il più ostico per il grande pubblico – ai rapporti che corsero tra la lingua egiziana e la lingua greca, non di rado regolati nel corso dei secoli dal tramite rappresentato dall’accadico, del fenicio e dell’aramaico.

Durante la lettura potranno poi stupire i tanti elementi di probabile origine egiziana che l’autore ha saputo rintracciare nelle opere di Esiodo e di Omero, ancor oggi capisaldi dell’identità occidentale. In questo modo si scopre per esempio che l’inganno del cavallo di Troia non è così dissimile dal tranello concepito dal generale egiziano Theuty per penetrare all’interno della città di Joppa; e che l’anelito del ritorno in patria accomuna l’eroe greco Ulisse e il sacerdote tebano Wenamun. Uno dei principali meriti del libro è quello di prendere le distanze dalle vetuste teorie riguardo il presunto predominio culturale di una delle due civiltà sull’altra. In particolare, l’autore è critico nei confronti sia dei propugnatori del «razzismo scientifico», per i quali la «razza ellenica» avrebbe rappresentato nell’Antichità un baluardo della civiltà contro la barbarie asiatica e nordafricana, sia dei vecchi e nuovi sostenitori dell’Ex Oriente Lux, secondo cui la civiltà greca sarebbe fiorita dall’incontro tra le primitive popolazioni dell’Ellade e le ben più evolute culture del Medio Oriente. A tal proposito, particolarmente tagliente è la critica al controverso volume Black Athena in cui Martin Bernal, negli anni ottanta del secolo scorso, teorizzava le radici afroasiatiche della civiltà degli antichi Greci.

Tuttavia, il punto di vista privilegiato di Piccolo è senza dubbio quello greco e in questa ottica, ad esempio, è significativa la mancanza di qualsiasi riferimento al monumento funebre di Pa-di-usir (Petosiri) nella necropoli di Tuna el-Gebel, l’antica Hermopolis, il cui programma decorativo riuniva le tradizioni artistiche egiziana e greca in un momento in cui l’Egitto perdeva definitivamente l’indipendenza per mano prima dei Persiani e poi dei Macedoni.

Ciò che emerge, in definitiva, da questo saggio è l’altalenante rapporto tra due culture che, nonostante l’innegabile influenza reciproca, cercarono tenacemente di conservare nel tempo il proprio specifico, evitando il più possibile di «confondersi» l’una nell’altra.