Sono passati ventuno mesi dall’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Federazione russa e Putin ha mantenuto le redini del regime nonostante le difficoltà militari sul terreno e le sanzioni occidentali. Dal febbraio 2022 il presidente russo è riuscito a stringere ancora di più il cappio intorno al collo della società russa, dando seguito a una gestione neo-patrimoniale del potere tipica del putinismo inaugurata fin dal 2000 e che aveva fatto un primo salto di qualità già nel 2012 (terza rielezione di Putin).

Prendiamo ad esempio gli oligarchi. Denotando una scarsa conoscenza della realtà russa, alcuni analisti e politici occidentali avevano sostenuto che le sanzioni avrebbero spezzato il legame tra Putin e questi ultimi. È invece successo il contrario, visto che oggi in Russia per essere un oligarca, cioè per poter giovare di enormi ricchezze accumulate nel tempo in modo più o meno illecito, è necessario avere l’appoggio del Cremlino.

GLI ULTIMI ventuno mesi hanno rafforzato questa dinamica: gli oligarchi devono la loro sopravvivenza economica e l’incolumità fisica al regime. In questo anno e mezzo, infatti, sono decine gli uomini ai vertici di aziende pubbliche o private che hanno perso la vita in modo sospetto: la maggior parte di loro ricopriva ruoli di responsabilità nel settore energetico e alcuni avevano sollevato critiche verso la guerra.

All’interno dell’élite russa, però, la morte più celebre è stata quella di Evgenij Prigozhin. Putin è stato il principale beneficiario della dipartita del comandante della Wagner, che aveva lanciato con la sua “marcia della giustizia” una sfida all’inquilino del Cremlino nel tentativo di riequilibrare a suo vantaggio (e di chi lo aveva inizialmente sostenuto) il potere tra le alte sfere della Federazione russa.

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Come tutte le “rivoluzioni di palazzo”, la ribellione di Prigozhin non pretendeva di sollevare la popolazione e si è conclusa con la morte di uno dei due contendenti. Il presidente russo ha inteso dimostrare a un paese impaurito di essere l’unico in grado di guidarlo e così facendo ha cercato di diffondere l’idea che al putinismo non c’è alternativa.

Il tentativo era anche quello di piegare l’opposizione di parte della società civile russa alla guerra in Ucraina, opposizione già duramente colpita dalla repressione. Solo per fare alcuni esempi, poco dopo l’inizio della “operazione speciale” il regime ha liquidato l’associazione Memorial, lo storico giornale Novaja Gazeta è stato costretto a chiudere e sono stati oscurati più di 200 media indipendenti con posizioni critiche verso la guerra.

Ecco dunque che Putin, almeno temporaneamente, è riuscito a tarpare le ali a qualsiasi alternativa politica proveniente dagli oligarchi, dalla sua cerchia ristretta e dalla società civile. Eppure nonostante questa solidità relativa, quanto appena detto dimostra che Putin non è riuscito a convincere i russi della necessità di combattere fino all’ultimo uomo (e rublo) in Ucraina.

LA CAUTA opposizione tra la classe dirigente è stata soppressa, ma ha dimostrato la presenza tra gli uomini di regime di posizioni critiche. Prigozhin è morto e la Wagner non rappresenta più una minaccia imminente per il Cremlino, ciononostante i russi hanno apprezzato le critiche rivolte dall’ex cuoco di Putin ai generali dell’esercito a testimonianza di un diffuso malcontento. La società civile è stata vittima di un ulteriore giro di vite, nondimeno la continua sequela di arresti ha messo in luce la fragilità del sostegno goduto da Putin.

In altre parole, il regime ha serrato i ranghi ma non può tirare troppo la corda. Al putinismo gli uomini e le armi non mancano, piuttosto è la debole legittimità politica che “l’operazione speciale” ha tra la popolazione russa a consigliare prudenza. Alla luce del precario equilibrio interno, più che per le difficoltà incontrate al fronte o per la pressione occidentale, il putinismo pare non avere le risorse politiche necessarie a vincere la guerra oppure a continuarla per un tempo illimitato.

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In egual misura non esiste oggi in Russia un’alternativa organizzata interna o esterna alla cerchia di Putin, a meno che non si facciano largo figure forse ancora più spericolate come Dmitrij Medvedev. Dopo ventuno mesi di guerra il potere di Putin è più fragile, ma il presidente rimane ancora l’unico in grado, se volesse, di cambiare la politica russa in Ucraina.

POSSONO le fragilità di cui abbiamo parlato spingerlo ad una apertura diplomatica non di facciata? Difficile dirlo. Le parole pronunciate al G20 sembrano aprire qualche spiraglio, ma devono essere analizzate con attenzione. Putin ha usato la parola «guerra» e chiesto di risolvere la «tragedia in Ucraina», ma ha anche deresponsabilizzato la Federazione russa addossando tutte le colpe per quanto successo dal 2014 in poi al governo ucraino.

Una vera apertura da parte del putinismo ci sarà solo quando il Cremlino deciderà di assumersi se non tutte almeno parte delle proprie responsabilità. Un passo non semplice da fare per Putin che ritiene quella in Ucraina una guerra esistenziale contro l’Occidente, ma forse necessario per interrompere il conflitto ed evitare così l’esacerbarsi delle debolezze interne accumulate nell’ultimo anno e mezzo.

*storico, autore di “Nella Russia di Putin” (Carocci, 2023)