A Mosca una tragedia come quella al centro concerti Crocus Hall non la vivevano per lo meno dal 2011, dall’attacco kamikaze all’aeroporto Domodedovo, ma quelli erano gli ultimi e convulsi movimenti del terrorismo ceceno, che prima di allora aveva colpito con bombe e fucili stazioni della metropolitana, treni in corsa nella notte, un teatro, il Dubrovka, proprio nella capitale nel 2002, e una scuola, quello stesso anno, nella cittadina di Beslan: trentacinquemila abitanti a ridosso del Caucaso, mille dei quali, soprattutto bambini, nelle mani per tre giorni delle Brigate Ryad-us Saliheen, agli ordini del leader separatista Shamil Basaev.

Per ciascun attentato la risposta della autorità era stata in qualche modo solenne. Messaggi alla nazione dal Cremlino. Riunioni trasmesse alla tv di stato con le più alte cariche civili e militari. Lutto, lacrime e promesse. Infine, operazioni violente per distruggere il nemico interno, senza grosse remore sul piano morale. È così che Vladimir Putin ha risolto la questione cecena. È che così che sul piano politico ha “consolidato” il potere personale sulla Russia.

QUEI TEMPI, i tempi degli islamisti e dei grandi attentati, i moscoviti erano convinti di averli alle spalle. Neanche la guerra in corso da due anni in Ucraina con il suo terribile bilancio in termini di vite umane è mai entrata davvero nella capitale. D’accordo, cartelli della propaganda sulle strade che invitano gli uomini ad arruolarsi, qualche sporadico attacco di droni sui grattacieli del distretto finanziario, nulla, però, che possa davvero cambiare la vita della città.

Non per niente Putin, alla vigilia del voto con cui lo scorso fine settimana ha ottenuto il quinto mandato da presidente, aveva definito «ricatto» l’allerta lanciato dall’ambasciata americana sul rischio di attacchi a Mosca. Nessun pericolo. «Uniti siamo più forti», come diceva lo slogan che ha segnato l’intera campagna elettorale.

Terminata la conta delle schede si pensava che la prova di fedeltà richiesta ai cittadini consistesse nell’assoluto sostegno alle urne al capo del Cremlino. Le immagini del tetto del Crocus a picco fra le fiamme dicono che potrebbe servire altro ancora. Le prime notizie sulle origini, presunte, caucasiche o centrasiatiche degli attentatori aprono a diverse, inquietanti, possibilità sulla regia della strage. Ma il paese che i terroristi hanno colpito è rimasto nelle mani di una sola persona, o di una cerchia ristrettissima di individui: saranno solamente loro a decidere la risposta.

PROPRIO «consolidamento» è stato il termine più usato da Putin e dalla cerchia dei suoi fedelissimi dopo il successo elettorale. E proprio ieri a Mosca il portavoce del presidente, Dmitri Peskov, ha usato la parola «guerra» a proposito dell’Ucraina. Poche volte le sue dichiarazioni sono state tanto esplicite. La Russia è in stato di guerra e tutti dovrebbero capirlo; non possiamo permettere l’esistenza di un paese che vuole riprendere la Crimea; le quattro province di Lugansk, Donetsk, Zaporizhzha e Kherson saranno completamente liberate.

Come se il quinto mandato di Putin avesse condotto il paese verso una nuova fase. Politica, economica e bellica. Una fase drammaticamente simile per certe dinamiche a quella che milioni di russi hanno affrontato ai tempi della Cecenia. E che altri milioni temono adesso di vedersi davanti. In questo senso, i violenti raid di ieri su centocinquanta infrastrutture energetiche ucraine, seguiti poco dopo da voci insistenti su una nuova mobilitazione che riguarderebbe trecentomila russi, potrebbero essere i segnali di una ulteriore escalation nei piani di Putin per l’Ucraina.