Nelle campagne italiane, anche al tempo del Coronavirus e della difficile regolarizzazione dei migranti privi di permesso di soggiorno, la macchina dello sfruttamento continua a produrre schiavitù e morte. È accaduto, sabato 6 giugno, ancora una volta a Sabaudia, in pieno Agro Pontino. Nel residence «Bella Farnia Mare», proprio davanti al luogo in cui la cooperativa In Migrazione organizzò, nel 2015, il primo centro servizi avanzati a tutela dei braccianti indiani, ostacolato dalla politica di destra e non adeguatamente sostenuto da quella di sinistra e in particolare dalla Regione Lazio, Joban Singh, bracciante indiano di 25 anni impiegato in condizioni di grave sfruttamento nelle campagne circostanti, ha deciso di togliersi la vita.

ERA GIUNTO IN ITALIA mediante un trafficante indiano che era riuscito a vendergli, per circa 8 mila euro, il biglietto di sola andata per un sogno chiamato benessere. Si ritrovò invece a lavorare come uno schiavo in alcune aziende agricole pontine, sotto diversi padroni italiani e caporali indiani, ricevendo in cambio un salario che non superava i 500 euro mensili. Poi la notizia della regolarizzazione e con essa la possibilità di liberarsi dalle catene del caporalato. Per questo si reca ripetutamente, insieme a diversi compagni di lavoro, da vari padroni italiani per domandare di essere regolarizzato. Tutto inutile. La regolarizzazione non lo deve riguardare perché i padroni non la ritengono conveniente.

Troppi soldi e troppa esposizione. E poi perché regolarizzare un bracciante indiano senza permesso di soggiorno e senza contratto che lavora da anni per circa 500 euro al mese? Il rifiuto della regolarizzazione si associa, per Joban, alla notizia della morte del padre. Gli anni di soprusi subiti e di sfruttamento diventano improvvisamente neri. La speranza di riabbracciare la madre e le sorelle ancora in India, di prendersi cura di loro, di liberarsi dal giogo criminale dei padroni, caporali e trafficanti, si infrange definitivamente.

COSÌ, DOPO ESSERSI SFOGATO con alcuni amici e capi della comunità indiana, decide di tendere una corda in cima alle scale interne della sua abitazione e di farla finita. Lì verrà trovato, ormai senza vita, dai suoi coinquilini.

Come Joban, altri tredici braccianti indiani nel corso degli ultimi tre anni hanno deciso di suicidarsi. Alcuni di loro, ridotti in schiavitù ed emarginati, si sono impiccati dentro le serre del padrone, unica forma possibile di denuncia e dissenso loro rimasta.

L’ULTIMO CASO ERA ACCADUTO l’1 dicembre scorso a borgo Hermada, nel Sud Pontino, ed aveva riguardato un bracciante indiano di appena 38 anni. Una foto scattata da un suo collega di lavoro mostra Joban durante la pausa pranzo, seduto in terra nella serra, chino a mangiare pane e ceci tra i filari di ortaggi che raccoglieva tutto il giorno, domenica compresa. È la fotografia di un sistema agromafioso che sviluppa, ogni anno, come ricorda l’Eurispes, circa 25 miliardi di euro e che ancora oggi governa la vita di circa 450 mila lavoratori e lavoratrici nelle campagne italiane.

Sono sicuro di avere incontrato Joban decine di volte. Proprio nel residence «Bella Farnia Mare» sono iniziati, circa tredici anni fa, le prime assemblee coi braccianti indiani per discutere della loro condizione lavorativa e di vita.

IN QUEI MICRO appartamenti di colore bianco, a richiamare le bianche case di Ibiza, sono stato centinaia di volte. Ho dormito al loro interno d’estate e d’inverno, aiutato a spegnere incendi notturni che rischiavano di sterminare famiglie intere, organizzato, ispirandomi alla pedagogia degli oppressi di Freire, corsi avanzati di italiano, educazione ambientale, diritto del lavoro, costituzionale e sindacale.

DURANTE IL PROGETTO «Bella Farnia» di In Migrazione, che ha portato ad organizzare, il 18 aprile del 2016, insieme alla Cgil, il più grande sciopero di braccianti stranieri in Italia, la porta di accesso al centro è sempre rimasta aperta, anche quando tentarono di intimidirci facendoci trovare sull’uscio una bombola del gas e un fornelletto.

SE LA POLITICA, AD OGNI LIVELLO, avesse deciso di far sopravvivere quell’esperienza di ricerca e impegno, forse Joban oggi sarebbe ancora vivo. Forse, trovando quella porta ancora aperta, avrebbe ricevuto il conforto, le informazioni e il coraggio necessario per continuare a vivere e denunciare caporali e padroni. Avrebbe potuto parlare con un mediatore indiano con esperienza di bracciante anche lui sfruttato nelle campagne pontine e con un’insegnante di italiano aperta alla didattica sperimentale. Invece, isolato ed emarginato, Joban ha deciso di suicidarsi. Sarebbe bastato poco per dargli una possibilità concreta di realizzare la sua speranza in una vita migliore. Magari il coraggio di investire in progetti qualificati e professionali «con la porta aperta».

NON CI RESTA, INVECE, ora, che spedire la sua salma in Punjab dalla madre e dalla sorella, chiedendo ancora una volta, dopo l’ennesima tragedia, anche per Joban un po’ di giustizia.