Il 6 marzo è stato sottoscritto il «Protocollo Sezione Immigrazione» tra il presidente del Tribunale di Venezia e il presidente del locale Consiglio dell’Ordine dal titolo. Ne ha scritto ieri, su questo giornale, Ernesto Milanesi. Non possiamo esimerci da alcune considerazioni critiche sul contenuto del protocollo perché crediamo contenga previsioni in contrasto con i più elementari diritti della parte processuale, in questo caso particolarmente debole ed ignara dei propri diritti.

Ci riferiamo in particolare ai punti 6 e 7, laddove si prevede l’audizione dello straniero da parte del giudice senza la presenza del difensore e l’obbligo del difensore di comunicare al giudice, prima dell’udienza, l’eventuale sussistenza di malattie infettive del ricorrente e nel caso l’obbligo di produrre certificazione medica attestante l’assenza di pericolo di contagio. Si tratta di previsioni secondo noi illegittime sotto molteplici aspetti.

La previsione dell’audizione del richiedente senza l’assistenza del suo avvocato difensore non solo lede gravemente il diritto di difesa della parte, tutelato dall’art 24 della Costituzione, ma rischia anche di rendere meno efficace e rilevante la stessa audizione del richiedente, il quale non conosce la normativa e spesso non rivela particolari rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale semplicemente perché non sa che si tratta di fatti o condizioni che consentirebbero il suo riconoscimento (come spesso accade ad esempio per le vittime di tratta o di mutilazioni genitali). Da tale punto di vista il ruolo dell’avvocato è determinate per giungere ad una decisione corretta.

L’obbligo per l’avvocato di rivelare dati ultra sensibili relativi al suo cliente, poi, lede il diritto alla riservatezza e la dignità della parte, e viola platealmente la normativa italiana sancita dal Codice in materia di protezione dei dati personali. Si tratta, infatti, di dati sensibili il cui trattamento e diffusione non è di regola consentito, possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante. Anche a volere fare rientrare tale trattamento (del che sinceramente si dubita) nell’ipotesi di salvaguardia dell’incolumità fisica di un terzo – sarebbe, comunque, necessaria l’autorizzazione preventiva del Garante della Privacy.

Nessuno penserebbe mai di chiedere simile certificazione medica alle parti di qualsiasi altro procedimento giudiziario, dimenticando, tra l’altro che i richiedenti sono soggetti a stringenti controlli medici sia al loro arrivo che nei centri di accoglienza. E nessuno oserebbe pensare, in altri settori del processo civile, a un interrogatorio libero della parte senza la presenza del difensore.

Ci preoccupa, dunque, non solo il profilo di illegittimità, ma anche l’opzione culturale che traspare dal protocollo, che tradisce lo svilimento della materia, che è complessa e tratta dei diritti umani fondamentali, e un pregiudizio nei confronti dei richiedenti asilo e dei loro difensori.

*Silvia Albano, Magistrato del Tribunale di Roma; Riccardo De Vito, Presidente di Magistratura democratica