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Proteste in Iran, il retroterra assente

Protesta in Iran, foto ApProtesta in Iran, foto Ap – Ap

Un approccio miope Gli attori politici che più hanno contribuito alla recente ascesa di Tehran nella regione sono gli stessi che oggi chiedono alla comunità internazionale di limitare il “regime degli āyatollāh”

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 8 dicembre 2022

Le origini della dinastia Pahlavi sono riconducibili a un colpo di Stato (1921) avallato e sostenuto dalle autorità britanniche presenti al tempo in Iran. Tanto Reza Khan, – un “violento” e “analfabeta” ufficiale che venne scelto dal capo di stato maggiore Sir Edmund Ironside – quanto suo figlio Reza Pahlavi, soppressero sin da subito ogni forma di opposizione, al fine di consolidare il proprio potere personale.

A dispetto di alcune riforme portate avanti dallo stesso Reza Pahlavi, quest’ultimo mostrò da subito un atteggiamento sprezzante nei riguardi delle donne, da lui considerate come esseri “inferiori”. Si pensi, tra altri possibili esempi, a quanto dichiarò nell’intervista concessa a Oriana Fallaci: “Nella vita di un uomo, le donne contano solo se sono belle e graziose e mantengono la loro femminilità e… Questa storia del femminismo, ad esempio. Cosa vogliono queste femministe? Cosa volete? Dice: l’uguaglianza. Oh! Non vorrei apparire sgarbato ma… siete uguali per legge ma, scusatemi, non per capacità”.

Il ruolo rivestito da Stati uniti e Gran Bretagna nel colpo di Stato del 1953 — che portò alla destituzione del primo ministro (democraticamente eletto) Mossadeq e al ritorno al potere di Reza Pahlavi — esercitò un’enorme influenza sulla successiva storia del Paese. Nelle parole di Mark J. Gasiorowski, “l’operazione angloamericana interruppe la spinta dell’Iran ad affermare la sovranità sulle proprie risorse e aiutò a porre fine ad un acceso capitolo della storia del movimento nazionalistico e democratico del paese”.

Mossadeq, che pure era espressione dell’oligarchia conservatrice iraniana, si oppose in maniera netta ai reiterati tentativi del clero sciita militante volti a imporre l’uso del velo integrale, nonché a vietare per legge l’utilizzo di bevande alcoliche. Laico convinto, Mossadeq incarnava agli occhi degli strati religiosi più integralisti lo spettro di una repubblica secolare.

Il motivo per il quale la rivoluzione iraniana del 1979 è stata la più “popolare” (si stima che partecipò in modo diretto l’11% del totale della popolazione) della storia moderna e contemporanea (il 7% della popolazione francese prese parte alla Rivoluzione del 1789-99; il 9% dei cittadini russi partecipò alla Rivoluzione del 1917) è in larga parte legato all’inusitato livello di oppressione imposto alla popolazione iraniana nei 26 anni compresi tra il colpo di stato del 1953 e la defenestrazione di Reza Pahlavi nel 1979.

Va chiarito che la componente laica e secolare della rivoluzione del 1979 fu da subito ben presente, mentre il suo carattere “islamico” divenne totalizzante solo in seguito, in particolare nella fase successiva all’occupazione dell’ambasciata americana a Tehran (4 novembre 1979-20 gennaio 1981) e allo scoppio della guerra con l’Iraq (22 settembre 1980), quando le correnti più oltranziste della compagine rivoluzionaria presero il sopravvento. Nelle parole di Mohammad Ayatollahi Tabaar, “prima c’è stata la rivoluzione, l’‘Islam’ è arrivato dopo”.

Il cosiddetto “regime dei mullāh” attualmente al potere in Iran – dove ogni quattro anni si tengono regolari elezioni monitorate da istituzioni internazionali, sebbene l’autorità ultima sia nelle mani di un leader religioso non eletto – è largamente impopolare all’interno del Paese, in particolare tra le fasce più giovani della popolazione. Le torture, gli arresti discriminatori e gli omicidi extragiudiziali compiuti dal regime sono frequenti e ben documentati.

Fatto salvo ciò, molti iraniani sono consapevoli dei processi di medio e lungo corso che hanno portato alla Rivoluzione del 1979 e guardano con un misto di apprensione e disillusione all’ulteriore costo che un cambio di regime potrebbe comportare. “Vogliamo un Iran”, per citare un testo prodotto dagli studenti dell’Università Amir Kabir di Teheran, “che non si precipiti tra le braccia dell’imperialismo a causa della sua paura del dispotismo, e uno che in nome della resistenza e della lotta all’imperialismo non vada a legittimare il dispotismo”.

Il diffuso sentire legato alle politiche oppressive del regime si accompagna dunque a un’altrettanto salda consapevolezza radicata in dinamiche più ampie e complesse. Diversi attori, per lo più esterni alla regione, sono da tempo impegnati, in modo più o meno diretto, a rafforzare gli elementi più conservatori e oltranzisti presenti nel Paese, – nonostante le apparenze, un Iran più libero, democratico e aperto al mondo risulta scomodo a molti – o a fare leva su una serie di strategie e gruppi di pressione al fine di innescare un nuovo cambio di regime.

Tali tentativi hanno conosciuto una crescita senza precedenti nell’ultima decade, in particolare a seguito dell’invasione dell’Iraq del 2003. Si noti che l’Iraq ha limitato per secoli l’influenza persiana/iraniana in Medio Oriente. Gli attori politici che più hanno contribuito a favorire le condizioni strutturali per la recente ascesa di Tehran nella regione – grazie in primo luogo proprio alla destabilizzazione dell’Iraq – sono dunque gli stessi che oggi sollecitano la comunità internazionale affinché agisca per limitare il “regime degli āyatollāh”.

Tutto ciò è figlio di un approccio tanto diffuso quanto miope: il qablan (prima), l’alan (presente) e l’ayandeh (futuro) dell’Iran – così come quello del resto della regione – sono e resteranno inestricabilmente legati.

 

* Professore, Università di Torino; direttore collane editoriali dell’Istituto Affari Internazionali (IAI)

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