Forse per la prima volta nella storia repubblicana italiana, siamo fuori dai due schieramenti tradizionali di centro-sinistra e di centro-destra.
Anche se in alcune città gli elettori dovranno scegliere soprattutto tra due candidati con una di queste appartenenze (vedi Milano), in realtà lo scontro amministrativo ha come protagonisti il Pd da una parte e il Movimento 5Stelle dall’altra. E quindi è, in larga parte, all’interno dello stesso schieramento, perché una buona fetta degli elettori dei 5Stelle viene proprio dall’area del partito democratico.
Non servono neppure i sondaggi per cogliere gli umori diffusi nella base – e non solo – di un partito che, in particolare a Roma, ha smarrito la propria storia ed è alla ricerca affannosa di una nuova identità. Un tempo molte categorie di lavoratori si ritrovavano dentro quella storia; ora questo senso di appartenenza è quasi scomparso. Anche a causa di un modo di governare – e di gestire il partito – arrogante e enunciatorio; molto più virtuale che concreto. I problemi degli italiani sono seri e richiedono una risposta di sostanza. In senso democratico, all’opposto della stretta esecutiva che il presidente del consiglio ha già programmato con la riforma costituzionale e con la legge elettorale.

Ma se questo è vero, perché il dissenso interno e la sofferenza sociale non riescono a trasformarsi nella costruzione di una forza di sinistra, consapevole dell’importanza e del significato di questa parola? Perché chi lascia il Pd, o resta a casa o vota i 5Stelle? Probabilmente perché nel nostro paese, come in altri, la politica è ridotta a slogan, semplificata in parole d’ordine che mirano a colpire la pancia del vasto popolo esposto al contagio di una comunicazione di per sé plebiscitaria. Non per giustificare tutto con il crescente populismo, però alla drammaticità della situazione internazionale, tra enormi ondate migratorie e guerre diffuse, non si risponde con politiche forti, ma con messaggi che alimentano e strumentalizzano le paure collettive, gonfiando la percezione dell’insicurezza, promettendo soluzioni semplici a problemi complessi, costruendo capri espiatori per una crisi economica che ridisegna i rapporti di forza nella società.

In passato, di fronte alla morte di migliaia di disperati in fuga da guerre, miseria, fame, il “popolo di sinistra” sarebbe sceso in piazza in massa per esprimere solidarietà e denunciare l’impotenza dei governi (quello italiano almeno fa qualcosa e i nostri soccorritori meriterebbero il nobel per la pace per quello che riescono a fare nel Mediterraneo). Un tempo, di fronte alle guerre feroci che massacrano gente inerme, donne, bambini, quel popolo avrebbe manifestato con forza per dire che le armi non sono la soluzione.
Tutto questo entra nel voto amministrativo, pesa nel governo delle città, reagisce con i problemi quotidiani di milioni di persone. Viviamo in luoghi dove le scelte più generali relative ai grandi scenari della crisi hanno un immediato riscontro. Io che voto a Roma vorrei certamente sapere se il futuro governo della città saprà migliorare il traffico e rendere più pulita la capitale, ma anche se metterà in campo una politica dell’accoglienza che eviti di trasformare interi quartieri in ghetti metropolitani, dove la criminalità locale pesca la manovalanza a basso costo dei più disperati. Nessuna utopia rivoluzionaria (che pure la fase di sconvolgimento geopolitico richiederebbe) ma una nuova idea di città che accoglie e cambia potrebbe riconciliare con la politica e con la partecipazione.
Purtroppo siamo persuasi che sarà già un successo se la metà degli elettori chiamati alle urne (13 milioni) si presenterà al seggio del suo quartiere. Obiettivamente è difficile dirsi convintamente partecipi di questo appuntamento elettorale. E non solo per le figure dei candidati, così lontane dai loro predecessori, dalla stagione dei sindaci del 1993 e dai loro successori “arancioni”.
Si è rotto il centrosinistra, si è spappolato il centrodestra, è finito il bipolarismo berlusconiano e il resto lo ha fatto la crisi economica. Il taglio dei servizi e l’aumento delle tasse hanno allargato il deserto, approfondito le distanze degli elettori dai partiti, dei cittadini dal municipio. Negli ultimi cinque anni, nelle città dove si voterà, l’aumento delle tasse, cresciute anche fino al 300 per cento, non aiuta a ritrovare fiducia.

Certamente non saranno le liste civiche, con la loro abnorme proliferazione (siamo arrivati quasi a 4mila) a riaccendere la fiamma dell’impegno. In quella che sarà ricordata come la campagna elettorale più opaca, debole e triste degli ultimi vent’anni, i partiti hanno indossato la tuta mimetica per confondersi agli occhi imbufaliti degli elettori. L’escamotage delle liste civiche anziché un tonico per l’affluenza potrebbe rivelarsi un cavallo di Troia per gli impresentabili. E, paradosso dei paradossi, il simbolo più presente sulle schede è quello dei 5Stelle, il movimento accusato di essere portabandiera dell’antipolitica.
L’altra vera, grande sorpresa di queste elezioni amministrative sarebbe una buona affermazione delle liste della sinistra, considerando l’ormai la lunga serie di sconfitte degli ultimi anni. Affondata dalla fine del centrosinistra e disorientata dall’arrivo del renzismo, una decisa affermazione dei candidati della sinistra, con il superamento della soglia di visibilità, significherebbe riconquistare un ruolo politico e la spinta per iniziare da qui la costruzione di una forza politica.