Giorgia Meloni vede con preoccupazione una deriva autoritaria dietro l’angolo, i renziani vorrebbero limitare il potere di indirizzo politico del parlamento che oggi, dicono, è eccessivo, il Movimento 5 Stelle è angosciato per lo stato di salute dei partiti e per il colpo alla rappresentanza inferto dal taglio dei parlamentari. Il dibattito alla camera sul semi presidenzialismo è questa cosa strana, i rappresentanti dei gruppi prendono la parola come se fossero appena atterrati da Marte. Una bolla avvolge il pomeriggio di Montecitorio e lontano dall’attenzione generale deputate e deputati sono liberi di sostenere anche il contrario di quello che i loro partiti hanno detto e fatto durante tutta la legislatura.

L’argomento è impegnativo, niente di meno che il cambio della forma di governo della Repubblica. Persino troppo impegnativo per pensare di poterlo affrontare a pochi mesi dallo scioglimento delle camere, non ci crede neanche Fratelli d’Italia che usa questo disegno di legge come un fischietto di richiamo per il centrodestra. «Qui si parrà la nobilitate di ciascuno di noi» dice Meloni sentendosi Dante, ma piazzandosi poi come Minosse in attesa delle confessioni degli alleati di centrodestra. Che non sfuggono: tanto Forza Italia, quanto Coraggio Italia e la Lega pagano il loro pegno al semi presidenzialismo in cui – a questo punto – neanche loro possono più credere. Ma votano come vuole Meloni e dentro la bolla il centrodestra torna unito per un pomeriggio. I voti, questo si sapeva, non bastano: il disegno di legge viene bocciato.

Pesano, come in commissione, le assenze. Una cinquantina quelle non giustificate nel centrodestra, la metà circa tra Pd e 5 Stelle. Gli emendamenti importanti, quelli che sopprimono il cuore della proposta di legge, passano con uno scarto di trenta voti. Meloni questa volta non fa la polemica con leghisti e forzisti ma annuncia che il presidenzialismo sarà un cavallo di battaglia della sua campagna elettorale. O il semi presidenzialismo, non è molto chiaro neanche se a Fratelli d’Italia interessi troppo distinguere. Del resto il disegno di legge in questione si limita a prevedere l’elezione diretta del capo dello Stato, lasciando irrisolti tutti gli (enormi) problemi che ne conseguirebbero. «Proponente di sostituire solo un ingranaggio quando poi bisognerebbe cambiare tutto l’orologio», ha detto il Pd Ceccanti, citando il presidente della Corte costituzionale Amato.

Poco dopo l’aula di Montecitorio ha visto di nuovo la divisione tra centrodestra e centrosinistra, ma questa volta in funzione di una riforma costituzionale approvata. È passata infatti, dopo anni di limbo in commissione, la proposta Fornaro che cambia la base elettorale del senato: non sarà più regionale. Il che può consentire un recupero dei resti nazionale e dunque limitare il problema della rappresentanza nelle regioni più piccole. Regioni che, con il taglio dei parlamentari, eleggeranno pochissimi senatori presentando dunque sogli di sbarramento in concreto assai più alte del 3% previsto (attualmente) dalla legge elettorale. I voti per le liste minori si potranno recuperare, sempre che questa riforma costituzionale riesca ad arrivare in fondo alle quattro letture previste dall’articolo 138. Recuperando in corsa quella maggioranza assoluta che servirà nelle due ultime votazioni e che ieri è rimasta lontanissima.