Il Pd ha voluto solennizzare la propria contrarietà al ddl Casellati sul premierato, chiamando ad esprimersi la sua segretaria Elly Schlein, in una conferenza stampa in cui sono state studiate le parole per esprimere l’opposizione a questa riforma, parole che vanno esaminate perché possono dare indicazioni interessanti per il prosieguo del confronto. La contrarietà del Pd, ha detto la segretaria, è «netta, forte e motivata».

«NETTA» SIGNIFICA che una mediazione sull’elezione diretta, non è possibile, concetto ribadito dal capogruppo in Commissione Affari costituzionali Andrea Giorgis, sia nella conferenza stampa che durante la seduta della Commissione; qui sono stati, tra l’altro, esaminati – e bocciati – gli emendamenti che proponevano l’alternativa all’elezione diretta, il modello tedesco. La contrarietà «forte» si traduce in una opposizione dura, a livello parlamentare, che in pratica significa un ostruzionismo senza sconti, in Commissione, ribadito anche ieri, nonostante una nuova richiesta in senso diverso da parte del presidente della Commissione Affari costituzionali, Alberto Balboni. Infine c’è l’aggettivo «motivata» per definire la contrarietà del Pd al ddl ed è quello a cui i senatori dem tengono di più ma che li fa anche arrabbiare di più. Infatti Giorgis e il presidente del gruppo Francesco Boccia si sono lamentati del fatto che alle argomentazioni contro l’elezione diretta e a favore di modelli alternativi, i senatori della maggioranza hanno risposto con il silenzio.

L’elezione diretta, ha affermato Schlein, «è una riforma furba, perché con essa Meloni dice ai cittadini “decidi tu” ma in realtà essa è un “decido io per cinque anni”». In particolare il fatto che «il parlamento sia eletto a trascinamento del premier eletto, mette nelle disposizioni del premier lo stesso parlamento e anche il presidente della repubblica, visto che il premier lo potrebbe eleggere da solo con la propria maggioranza». Insomma nessun peso e contrappeso come invece il semipresidenzialismo alla francese prevede, separando l’elezione del presidente della Repubblica da quelle del parlamento.

In effetti anche ieri, questa obiezione ripetuta in Commissione da Giorgis e da Dario Parrini, non ha ricevuto contro-argomentazioni da parte dei senatori della maggioranza.

MA LA CONTRARIETÀ «motivata» ha anche un altro scopo, illustrato da Schlein, quello di coinvolgere in questa opposizione anche i settori della società. Vuol dire che ci si appresta a una battaglia referendaria. Di referendum ha parlato – ancora una volta – anche Giorgia Meloni, che ieri mattina ha difeso la riforma: «Decideranno i cittadini» ha detto. Ma su questo passaggio la cosa più interessante è la data che la premier ha indicato per il futuro referendum: il 2028, vale a dire oltre la fine di questa legislatura, la cui scadenza naturale è infatti il settembre 2027. Questo rimette in discussione il cammino delle riforme che ci si era immaginato, non solo il premierato ma anche l’Autonomia differenziata. Si pensava, infatti che oltre ad un primo sì in Commissione al premierato prima delle europee, Meloni puntasse anche all’approvazione da parte dell’Aula del Senato entro la pausa estiva di agosto, e l’approvazione definitiva (con la doppia lettura conforme delle due Camere) nel 2025, con referendum nel 2026.

A QUESTO PUNTO non appaiono tattica le parole del presidente della Commissione Balboni che sia ieri che giovedì scorso aveva assicurato che la maggioranza non aveva l’obiettivo di portare il testo in Aula prima delle elezioni europee. Ma a questo punto occorre capire i motivi del rallentamento, che porta a una analoga frenata anche dell’Autonomia differenziata. Le due riforme, infatti, nei patti Fdi-Lega, devono procedere parallelamente: simul stabunt, simul cadent.