A poche ore dal Consiglio dei ministri di domani che dovrebbe varare la riforma costituzionale che introduce l’elezione diretta del premier, nella maggioranza la confusione regna sovrana.

I TONI TRIONFALISTICI di lunedì, dopo il vertice di maggioranza che aveva dato il via libera alla bozza Casellati, sembrano svaniti. E già vengono al pettine tutti i problemi derivanti da un mostro giuridico sconosciuto alle grandi democrazie occidentali, in particolare per quanto riguarda la disciplina in caso di sfiducia o dimissioni del premier eletto.

L’ipotesi, contenuta nella bozza che, in caso di crisi, il Capo dello Stato possa dare l’incarico solo al premier dimissionario o ad un parlamentare eletto nelle liste che lo avevano sostenuto, appare anche a destra per quello che è: non funziona, limita eccessivamente i poteri del presidente della Repubblica, e nella parte in cui indica (in Costituzione!) che il programma del nuovo governo sia identico a quello precedente suona addirittura come una follia.

Ma è la stessa ipotesi di poter affidare l’incarico a un parlamentare della vecchia maggioranza ad apparire in palese violazione dell’articolo 67 della Costituzione, secondo cui tutti «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».

DI QUI I FRETTOLOSI TENTATIVI di rimettere mano al testo approvato lunedì: si parla di tirare fuori dai cassetti un’ipotesi accantonata prima dell’estate, quella di un vicepremier eletto in ticket col premier cui affidare l’incarico in caso di dimissioni del secondo.

IGNAZIO LA RUSSA, in una intervista, è più esplicito: il meccanismo in caso di sfiducia «mi sembra arzigogolato», dice il presidente del Senato premettendo di parlare «a titolo personale». «Se devi fare l’elezione diretta del premier, allora meglio farla fino in fondo. Sarebbe meglio dire: se il premier si dimette o viene sfiduciato, si torna al voto». La Russa precisa di non averne discusso con Meloni. Ma afferma: «So però che la pensa così in generale, diciamo storicamente, perché di queste cose dibattiamo da molti anni». E aggiunge: «Per me al referendum non dovremmo arrivarci. Io sono per fare qualche concessione all’opposizione che non stravolga il testo per coinvolgere la maggioranza più ampia possibile arrivando ai due terzi. Io farò la mia parte per riuscirci».

SE LA RUSSA PARLA per conto della premier, significa che, come nel gioco dell’oca, si riparte quasi da zero. E che il lungo iter parlamentare potrebbe riservare molte sorprese. La formula del «simul stabunt simul cadent», meno barocca, non piace però Salvini, che vede tutti i rischi di un(a) premier che tiene al guinzaglio gli alleati minacciando a ogni piè sospinto di tornare al voto.

Da destra, Alemanno stronca la bozza e si dice pronto a fare battaglia per il no al referendum: «Col premierato si rischia di comprimere la funzione del Parlamento, una strada pericolosa: la strada maestra è eleggere direttamente il Capo dello Stato. La riforma che, secondo Meloni, dovrebbe dar vita alla «terza repubblica» parte già azzoppata. E non è una cattiva notizia.