«La versione ufficiale è quella dello schianto causa maltempo, ma possiamo formulare ipotesi alternative: l’intervento straniero, l’attentato da parte di un gruppo terroristico, la resa dei conti interna, il guasto tecnico». Nima Baheli è analista geopolitico, esperto di questioni di sicurezza e relazioni internazionali collegate al Medio Oriente allargato.

Con lui proviamo a leggere e decifrare i messaggi arrivati dalla Repubblica islamica d’Iran a seguito della caduta dell’elicottero nella regione iraniana dell’Azerbaigian che domenica sera è costata la vita al presidente iraniano Ebrahim Raisi e al ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian.

Non abbiamo certezze, ma possiamo ragionare.

Escluderei la responsabilità estera, cioè di Israele. Dopo le ultime schermaglie, può parlare di sostanziale pareggio tattico tra Tel Aviv e Teheran. E poi perfino il governo Netanyahu non rischierebbe di esacerbare lo scontro con un attacco indiscriminato ad alte cariche istituzionali. Trovo anche poco plausibile ricondurre a organizzazioni terroristiche, che a partire dall’Isis difficilmente avrebbero avuto il know how per realizzare una operazione del genere. L’ipotesi del guasto tecnico non è del tutto da escludere: l’elicottero è un modello Bell 412, uno dei migliori a disposizione dell’Iran, ma è piuttosto vecchio.

Ci sono indizi che lasciano supporre non si sia trattato di incidente?

Il convoglio era composto da tre elicotteri, e solo quello con a bordo il presidente e il ministro non sono arrivati a destinazione. In quest’ottica non escluderei del tutto la possibilità di una resa dei conti interna. La morte di Raisi potrebbe non dispiacere a molte persone all’interno del sistema iraniano.

A quale scopo?

Il messaggio inviato dagli autori dell’attentato sarebbe il seguente: bisogna tornare a un sistema multicentrico.

Ovvero?

La Repubblica islamica era sempre stata multicentrica, con vari gruppi di potere che coesistevano: una sorta di grande Democrazia cristiana in salsa iraniana, con tante tendenze diverse al suo interno. Negli ultimi dieci anni, invece, con il primo tentativo – fallito – da parte di Raisi di contendere la presidenza della Repubblica al pragmatista Hassan Rouhani, gradualmente questo sistema multicentrico è cominciato a diventare monocentrico e si è assistito all’esclusione di personaggi che prima erano centrali, come lo stesso Rouhani, a cui nelle recenti elezioni dell’Assemblea degli Esperti di marzo è stato impedito di candidarsi, o lo storico presidente del Parlamento Ali Larijani. Questo ha portato a risentimenti all’interno dell’apparato di potere, rafforzati ancor di più dalla potenziale nomina a futura guida suprema dello stesso Raisi.

Una resa dei conti interno al regime, quindi. Poi come dimostrano le scene di giubilo viste in diversi video, il presidente non era amato da molti iraniani.

Il paese è attraversato da un doppio fronte interno: c’è la guerra tra apparati, di cui abbiamo appena parlato. Poi c’è il dissenso popolare. Raisi è forse il meno amato dei presidenti degli ultimi 35 anni. Esordio da magistrato sanguinario, che ha condannato a morte migliaia di persone nel 1988 (si stima fra le 8 e le 30 mila), era privo di carisma politico e in più anche persona poco istruita. La repressione da lui voluta dopo l’uccisione di Mahsa Amini nel settembre 2022 ha completato il quadro che ne fa un macellaio agli occhi del popolo iraniano.

Ci sono speranze per l’opposizione popolare? Possibilità di crollo del regime?

Molto dipende se la risposta sarà a muso duro, oppure accetterà le richieste delle parti estromesse. Le istanze dei giovani scontano invece la mancanza di una opposizione coesa di fronte a un sistema politico che ha tuttora il predominio della violenza.

Quali saranno le conseguenze per la regione di quello che accadrà a Teheran nelle prossime settimane?

Dipende da come proseguirà il tentativo di intraprendere la politica di distensione con gli Usa che il Ministro degli Esteri Abdollahian aveva intrapreso la scorsa settimana in Oman con esponenti del dipartimento di Stato americano. Un ritorno ad un accordo sul nucleare (siglato nel 2015) poteva indebolire interessi economici e politici di strutture, come i Pasdaran. Quelli che hanno ripreso forza grazie alle sanzioni reintrodotte da nel 2018 da Trump.