Potenzialmente, è una bomba chimica letale per chi vive nel raggio di 50 chilometri. Il «Chempark» di Leverkusen, già noto come «Bayerwerk», è un polo industriale di circa 11 chilometri quadrati che ospita 70 aziende chimiche e impiega quasi 50.000 lavoratori tra gli operai dei grandi impianti e le piccole e medie imprese dell’indotto. Oltre un terzo di tutta la produzione chimica del Nordreno-Vestfalia viene prodotta in questo spicchio di Germania incuneato tra il Reno e la zona della Ruhr, nel cuore del Land più popoloso della Repubblica federale.

Fino alla fine degli anni ’90 del secolo scorso il «Chempark» è stato il sinonimo del colosso chimico-farmaceutico «Bayer» indissolubilmente legato alla città di Leverkusen, a partire dalla squadra di calcio militante nella Bundesliga con lo storico nome di «Bayer-Leverkusen». La stessa «Currenta», proprietaria dell’impianto esploso ieri mattina, fino al 2007 si chiamava «Bayer Industry Services» prima che «Bayer» la vendesse per 3,5 miliardi di euro alla banca d’investimenti australiana Macquarie (ribattezzata dai media di Sidney come “la fabbrica dei milionari” che vanta decine di asset strategici: dalla chimica alle fusioni aziendali, fino al parco di divertimenti «Dreamworld»).

Esattamente dalla fusione di tre differenti siti di produzione di «Bayer» nel 2008 nasce il «Chempark», con «Currenta» a fare da capofila della filiera chimica, al punto che attualmente gestisce perfino i vigili del fuoco dell’intero distretto chimico. Ma l’impresa ora australiana è attiva anche nella formazione di un migliaio di apprendisti all’anno, soprattutto per conto di conto dell’ex padrone «Bayer» e delle imprese «Lanxess» e «Covestro».

Sulla carta, ufficialmente, fino a ieri mattina, il «Chempark» era «un distretto produttivo affidabile», almeno secondo le rassicuranti dichiarazioni dei gestori. In realtà è uno dei poli che formano l’ossatura della chimica made in Germany, tutt’altro che celebre per la sicurezza degli impianti come provano i numerosi incidenti nell’ultimo ventennio.

Spicca l’esplosione del dicembre 2000 di una caldaia in resina sintetica dell’impresa «Vianova Resins» di Wiesbaden, che solo per un miracolo non provoca una strage ma si limita a distruggere gli edifici circostanti con danno stimato in 50 milioni di euro. Segue la deflagrazione di maggio 2001 della «Basf» di Ludwigshafen: un macchinario dell’impianto di produzione di prodotti chimici tessili provoca un incendio che diffonde una nube di gas irritanti per gli occhi e la pelle. Risultato: circa 170 persone, tra cui 69 bambini, finiscono all’ospedale.

Fa il paio con il «botto» dell’agosto 2001 del centro di galvanizzazione di Leinburg, in Baviera, che rilascia ben 50 litri di cloro; i lavoratori intossicati sono più di 40. Ma non basta: nel dicembre 2001 otto vigili del fuoco vengono investiti in pieno dalle esalazioni di acido cloridrico dopo l’incendio dello stabilimento di Francoforte della società chimica svizzera «Clariant». Anche qui una nube tossica si alza nell’atmosfera per diversi chilometri.

Si aggiunge alla nuvola tossica rilasciata, nello stesso mese, da un serbatoio chimico della «Beiersdorf» di Amburgo, impresa leader nella produzione di cosmetici. Più di 20 dipendenti vengono ricoverati in ospedale con ustioni e irritazioni a gola e polmoni-

L’anno successivo è di nuovo il turno della «Basf»: nello stabilimento per la produzione di mangimi in Renania-Palatinato salta in aria un serbatoio contenente 200 litri di toluene ferendo sei operai. Nell’aprile 2002 tocca invece all’esplosione di un deposito di ossigeno vicino a Stoccarda causato dalla perdita di una valvola di sicurezza. Un operaio muore, due vengono gravemente ustionati. Poi è la volta del mega-incendio sviluppatosi nel polo chimico di Marl, nella Ruhr: altro hub industriale della chimica tedesca che ospita più di 100 aziende del settore. A pagare con la vita, questa volta, sono altri due operai.