Jaiden, Kenneth, Stanley, Pedro, Tyler, Edwin, Samuel, Tyshon, Gary e Gustin. Questi i nomi dei dieci giovani di età compresa tra i 9 e i 19 anni – 7 neri, due ispanici e un bianco -, uccisi, ciascuno per motivi diversi, da colpi di arma da fuoco il 23 novembre del 2013: la data scelta, volutamente a caso, dal giornalista britannico Gary Younge per realizzare la sua drammatica inchiesta dal titolo Un altro giorno di morte in America (Add, pp. 352, euro 18) che sarà presentata oggi al Festivaletteratura di Mantova.

A lungo inviato del Guardian negli Stati Uniti, Younge racconta il modo nel quale queste giovani vite sono state spezzate – come accade ogni giorno in un paese dove annualmente si contano decine di migliaia di morti a causa delle armi -, tracciando così un ritratto lancinante della società americana.

La sua inchiesta racconta le conseguenze della diffusione delle armi da fuoco negli Stati Uniti attraverso le vicende di alcune giovanissime vittime. Queste storie cosa ci dicono dell’America di oggi?
In America, il «dibattito sulle armi» corre il rischio di diventare sterile perché da un lato ci si limita a chiedere solo più controlli e, dall’altro, si evoca costantemente il Seconco emendamento, che stabilisce il diritto a possederle da parte di ogni cittadino. Perciò, ho deciso di raccontare cosa fanno le pistole, piuttosto che discutere se debbano o meno essere in circolazione. Scrivere dei ragazzini rimasti uccisi in un giorno qualunque mi ha permesso di evidenziare ciò le armi rappresentino davvero per il paese.

Di cosa si tratta?
Per prima cosa la scelta è caduta su un giorno in cui a sparare, o a morire, non erano stati soprattutto membri delle gang o le vittime non erano state colpite da un poliziotto. Queste morti senza «etichetta» evidenziano così come il tema delle armi si intrecci in modo inestricabile con i diversi elementi che caratterizzano la realtà sociale americana. Vale a dire un paese segnato dalla segregazione sociale, dal razzismo, da enormi diseguaglianze, dalla povertà e dalle dipendenze, a partire dagli oppiacei e dall’alcol. E in questo mare di disagio e ingiustizia emerge la facile esca fornita della diffusione di armi letali pressoché ovunque e per tutti. Il secondo punto riguarda i bambini, le vittime di cui ho scelto di occuparmi. Anche nella società occidentale più spinta verso il neoliberismo c’è la consapevolezza che i bambini rappresentano una categoria speciale per cui abbiamo una responsabilità collettiva; per questo esistono servizi sociali e tribunali per i minori e via dicendo. Queste morti non possono essere liquidate come quelle di persone cattive che fanno cose cattive, come qualcuno cerca di sostenere dopo l’ennesimo fatto di sangue che coinvolge qualche ragazzino per poter poi girare la testa dall’altra parte. No, queste morti riguardano tutti, interrogano profondamente l’America.

 

Il giornalista britannico Gary Younge

 

Per spiegare la diffusione delle armi, allo strapotere della National Rifle Association che riunisce le aziende del settore, e che può decidere l’esito di un’elezione – Trump ha ricevuto un ampio sostegno -, si aggiungono temi «culturali», politici e religiosi: dal mito della frontiera alla «rabbia dell’uomo bianco». Dalla sua inchiesta cosa emerge?
Che tutti questi fattori si mescolano in modo inestricabile per costruire la situazione drammatica che abbiamo di fronte. Per certi versi è come se molti americani non riuscissero neppure ad immaginare un mondo senza armi. Tra coloro che ho incontrato, in molti possiedono un’arma perché vivono nella paura che gli altri ne abbiano una. Perché gli è stato inculcato da generazioni che è il solo modo per difendersi. Ma se le armi servissero davvero a questo, l’America sarebbe il paese più sicuro del mondo occidentale. Invece non è così, ed è inoltre molto più probabile che ti sparino proprio se hai una pistola in casa. O dopo un alterco, o per sbaglio in mezzo alla strada. Per non parlare di una crisi depressiva che si trasforma in un suicidio. È questo che emerge dall’inchiesta: a trasformare una lite in un omicidio, uno scherzo tra adolescenti in una strage è questa largissima diffusione delle armi da fuoco.

Perfino tra i genitori delle piccole vittime delle quali racconta la storia, sembra radicata la convinzione che in ogni caso non si possa ridurre la presenza delle armi. Al massimo si chiede che i responsabili di queste morti subiscano la stessa sorte e siano giustiziati. Perché questa sorta di rassegnazione?
La causa credo vada ricercata nell’inerzia della politica. E quando dico questo non penso solo ai Repubblicani, da sempre pro-Nra, ma anche al Partito democratico che non ha mai affrontato fino in fondo il tema dello stop alla vendita di pistole e fucili. Molti americani considerano le vittime delle armi alla stregua dei morti sulle strade, hanno un atteggiamento analogo a quello che emerge in questi casi. Se tuo figlio è stato ucciso da un’auto puoi impegnarti perché sia installato uno stop o un semaforo, perché si abbassi il limite di velocità, ma non potresti mai chiedere che si elimini il traffico, che si arrivi ad un mondo senza auto. Al massimo ti puoi concentrare sul guidatore irresponsabile, perché sia punito severamente, ma niente di più. E comunque, a differenza del dibattito sulle armi, in questo caso nessuno verrà a dirti che sono richieste incostituzionali, che ledono «i principi» dello spirito americano.

Eppure, dopo la strage di Parkland è nato un movimento giovanile, #MarchForOurLives che ha portato in piazza centinaia di migliaia di giovani in tutto il paese.
In effetti, dopo Parkland le cose sono sembrate sul punto di cambiare, anche se questi giovani si muovono da soli e senza un vero sostegno neppure da parte dei Democratici. Il punto è capire se il movimento crescerà nel paese o resterà limitato ai soli ambienti giovanili. Purtroppo dobbiamo ricordare che l’America profonda non ha davvero reagito neppure dopo la strage nella scuola elementare di Sandy Hook del 2012, quando, tra le vittime, si contarono anche venti bambini tra i sei e i sette anni.

La maggior parte delle vittime di cui si è occupato sono nere o ispaniche, ma lei scrive che «questo non è un libro sulla razza». Come stanno le cose?
Ci sono più neri e ispanici tra le vittime delle armi perché rappresentano una fetta della popolazione meno protetta e tutelata, ma a morire sono anche i figli del ceto-medio bianco.[/RISPOSTA] Sul fondo, il tema è però un altro. Il mio è un libro sull’America. E non si può parlare di questo paese senza parlare di «razza». Gli Usa sono stati schiavisti per più di duecento anni, hanno adottato un regime di apartheid per altri cento è sono diventati una democrazia non razziale solo nell’ultimo mezzo secolo. In fondo, la nozione di uguaglianza razziale è un concetto abbastanza nuovo nella politica statunitense.