Quando agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso il più grande archivio per gli studi sulla letteratura tedesca, il DLA di Marbach, cominciò a raccogliere i lasciti dei germanisti per documentare la storia e le trasformazioni di una disciplina dal passato largamente oscuro, non fu subito chiaro a tutti quale sarebbe stata la portata di una simile scelta. Il vecchio e glorioso germanista Wulf Segebrecht, ormai prossimo alla pensione e con lo scetticismo tipico di chi nel suo campo ha ormai raggiunto tutto quanto poteva raggiungere, si chiedeva se a un simile sforzo avrebbe mai corrisposto un qualche risultato di rilievo: «In fondo – diceva – non interessiamo a nessuno».

Segebrecht non poteva immaginare che da quei lasciti e dalle ricerche di storici e giornalisti sarebbero emersi i molti peccati di cui si era macchiata una generazione di studiosi rigenerata da prodigiose metamorfosi, che avevano trasformato giovani e convinti nazionalsocialisti in studiosi di Kafka (Wilhelm Emrich), interlocutori dei filosofi francofortesi (Hans Robert Jauss), compassati rettori e filologi goethiani (Hans Schwerte, che aveva cambiato nome per nascondere il suo passato nazista) e, naturalmente, spregiatori e critici severi della narrativa di Thomas Mann (Hans Egon Holthusen), unico autore, per costoro, universalmente indigeribile. Ma prima ancora che tutto questo emergesse, lo stesso Segebrecht era in grado di nominare almeno un germanista il cui lascito avrebbe avuto un’importanza capitale, e quel germanista era Peter Szondi. Quando nel 1993 apparvero in prima edizione le sue lettere, curate ottimamente da Christoph König e Thomas Sparr, fu subito chiaro che quell’epistolario varcava di gran lunga i limiti del documento di storia accademica.

Szondi era stato per oltre un decennio non soltanto lo storico e critico della letteratura più importante della sua epoca, ma anche un intellettuale pubblico pronto a discutere ogni tema di rilievo con tutti gli strumenti mediatici disponibili a un giovane ma già acclamato professore universitario: lettere aperte, tavole rotonde, interventi a stampa, dichiarazioni, testimonianze in giudizio. Gert Mattenklott, che fu uno dei suoi ultimi assistenti alla Freie Universitaet di Berlino, ricordava bene il suo impegno a favore degli ebrei in Germania, contro il nuovo antisemitismo, ma anche per il rinnovo degli strumenti di analisi e di giudizio degli studi umanistici. La sua prodigiosa capacità di analizzare lucidamente i grandi temi della filologia, ma anche della storia contemporanea a partire da una posizione segnata da un’etica dell’esattezza indistruttibile, più ancora della sua storia di ebreo ungherese deportato appena quindicenne nel campo di di Bergen-Belsen e miracolosamente salvato, gli conferiva in ogni contesto un’autorevolezza raramente riconosciuta a un giovane professore, che non avrebbe superato i quarantadue anni.

Per di più, Szondi si trovò a essere protagonista di una stagione della cultura ebraico-tedesca che non avrebbe mai conosciuto eguali: una stagione segnata dall’eredità di Walter Benjamin, dagli ultimi anni di attività di Theodor W. Adorno, dal riconoscimento universale riservato alla lirica di Nelly Sachs e Paul Celan, dall’attività inesauribile di Gershom Scholem. Szondi fu al centro di una rete di amicizie e relazioni che le sue lettere rivelarono per la prima volta, nella sua vastità, a chi non l’aveva conosciuto in vita e che ancora oggi si mostrano nei documenti che seguitano a uscire dalle carte conservate a Marbach.

La prossima pubblicazione (il 10 marzo) dell’epistolario Paul Celan – Peter Szondi, Lettere 1959 – 1970 (a cura di Christoph König, traduzione di Luca Guerreschi, Neri Pozza, pp. 288, € 18,00) integra il quadro offrendo uno sguardo complessivo e puntualmente documentato delle relazioni che legarono il poeta al suo critico lungo tutti gli anni Sessanta. Il libro riunisce un centinaio di lettere e cartoline (spesso brevi comunicazioni) che il commento di Christoph König si occupa di collocare nel contesto a cui si riferiscono e nella giusta luce.

Gran parte di queste lettere hanno a che fare con tre fatti salienti della vita di Paul Celan: il cosiddetto «affaire Goll» – vale a dire l’accusa di plagio che la vedova del poeta Yvan Goll rivolse a Celan, il quale avrebbe copiato per le liriche della Sabbia delle urne versi tratti da alcune poesie del marito scomparso; il conferimento a Celan del premio Büchner nel 1960; la preparazione del seminario del 19 dicembre 1967 alla Freie Universitaet a cui Szondi invitò Celan e dal quale scaturirono gli Studi che il critico dedicò, postumi, al poeta. Sono questi tre passaggi a costituire, in essenza, la storia del rapporto fra Szondi e Celan, che nacque certamente, all’inizio, dal bisogno di riannodare il filo di una cultura cancellata dal nazionalsocialismo.

Fu, com’è logico, Szondi, giovanissimo ma già autore di un libro come la Teoria del dramma moderno, a contattare Celan già riconosciuto come il maggior poeta ebreo di lingua tedesca, attraverso la mediazione di conoscenti e compagni di studi che lo conoscevano.  Celan si dimostrò subito disponibile e il premio Büchner, che gli venne assegnato, si prestò a tessere una comunicazione amichevole, sia pure nel rispetto di impeccabili forme. Di lì a poco sarebbe scoppiato l’affaire Goll nel corso del quale Szondi, appena trentunenne, avrebbe preso pubblicamente le difese di Celan, usando per la prima volta, nel corso di un dibattito non meno acceso che spinoso, soprattutto dal punto di vista etico, quegli strumenti filologici che avrebbe poi magistralmente maneggiato, nelle sue numerose prese di posizioni pubbliche.

Molto consapevolmente, Szondi faceva suo l’insegnamento di Benjamin, che aveva scoperto per proprio conto nel 1952, quando il filosofo era stato ormai quasi completamente dimenticato (fra le sue carte, a Marbach, si trova ancora la copia di suo pugno del saggio sulle Affinità elettive). Celan fu subito grato a Szondi, non potendo ignorare, fra l’altro, che la presa di posizione pubblica aveva opposto il giovane critico a una nutrita serie di grandi nomi della germanistica del tempo, inclini a riconoscere almeno qualche ragione alle pretese di Claire Goll. E certamente l’atto di coraggio di Szondi alimentò un rapporto nel quale – come mostrano le lettere – Celan dovette riporre molte speranze. Non si trattava solo di conquistare un critico intelligente e raffinatissimo alla sua causa: come le lettere mostrano bene, quei frangenti determinarono fra i due una vicinanza ideale e una comprensione che, per comunicarsi, si valse di una specie di codice amicale. Di sicuro, da quel momento i rapporti fra poeta e critico si fecero più solidi. Grazie anche alla mediazione di alcuni amici francesi (soprattutto del filologo classico Jean Bollack, vicino a entrambi) le relazioni divennero più personali. Quello che le lettere non mostrano, né potrebbero evidenziare se pure fossero il doppio, è l’intensità del dialogo che da questo momento in poi si stabilì fra Celan e Szondi e che diventò un rapporto personalissimo nel giro di poco tempo (sempre fra le carte di Marbach si trova, ad esempio, un disegno raffigurante una grande bandiera francese che il figlio di Celan, Eric, inviò a Szondi come segno di saluto da Parigi).

Di questo dialogo offre un debole riflesso lo scambio epistolare che precede il seminario tenuto da Celan in prossimità del Natale 1967 a Berlino. La lettura dell’invito, della sentita risposta di accettazione, delle poche righe in cui Celan e Szondi prendono accordi e del messaggio con cui Celan invia a Szondi – dopo il seminario – il suo Poema d’inverno, nato in quei giorni, raccontano in diretta una storia che Szondi avrebbe poi ricordato in dettaglio nella prima parte dell’incompiuto saggio Eden, abbandonato sulla scrivania poco prima di suicidarsi nel Wannsee.

Di questo più profondo legame fra Celan e Szondi, del filo che collega i due suicidi che misero fine a una delle più intense e importanti relazioni intellettuali e d’amicizia che la cultura ebraico-tedesca abbia conosciuto nel dopoguerra, nulla è dato sapere. Resta il fatto che fra il 1969 e il 1972, con la scomparsa di Adorno, di Celan, di Nelly Sachs e di Peter Szondi ebbe fine la storia di quell’ultima stagione della cultura ebraico-tedesca di cui queste lettere riflettono la parte, forse, più significativa.