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Peste suina, la cura è ridurre gli allevamenti

Peste suina, la cura è ridurre gli allevamenti

Animali 24 focolai, 26 mila aziende a rischio e nessuna soluzione, oltre ai divieti. In Italia l’ondata epidemica di PSA fa sempre più paura

Pubblicato 28 giorni faEdizione del 5 settembre 2024

In Italia la peste suina africana fa sempre più paura. È stato il Commissario straordinario, la figura incaricata di realizzare il Piano nazionale di sorveglianza ed eradicazione della Peste Suina Africana (PSA), a sottolineare la complessità della situazione in un’intervista con l’agenzia Ansa: «Al momento ci sono in Italia 18 focolai in Lombardia, 5 in Piemonte e 1 in Emilia Romagna» ha detto Giovanni Filippini, invitando alla prudenza anche se si tratterebbe di «una situazione legata a un’ondata epidemica» e «definirla drammatica è esagerato».

IL PIANO È STATO ADOTTATO nel 2022, ma già due anni prima il ministero della Salute aveva iniziato ad occuparsi del tema, con un Piano nazionale di Sorveglianza della PSA, cofinanziato dalla Commissione europea, in base alla quale realizzare attività di sorveglianza nel domestico e nel selvatico. Ricordiamo che non esistono cure o vaccino: la PSA è letale per i maiali e per i cinghiali, mentre gli altri animali non possono contrarla. Anche per le persone è innocua, ma chi entra in contatto con il virus può diventare vettore passivo di contagio, facilitando la sua diffusione nell’ambiente e negli allevamenti (ed è ciò che è successo in Pianura Padana).

L’ultimo provvedimento, a fine agosto, aveva visto Filippini decidere per «i divieti di movimentazione degli animali e di accesso agli allevamenti situati nelle zone di restrizione I, II, III di Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna»: nessun ingresso, nessuna uscita.

NEGLI ALLEVAMENTI è, poi, vietata «qualsiasi manutenzione o lavoro ordinario non strettamente connesso a interventi a garanzia del benessere animale che andranno preventivamente autorizzati dal servizio veterinario territorialmente competente». Negli allevamenti si dovrà «indossare – sempre come specificato nell’ordinanza – tute e calzari monouso all’ingresso e garantire di non aver visitato altri allevamenti suini nelle 48 ore precedenti e di non essere stati all’interno di boschi o in altri luoghi in cui sia stata segnalata la presenza di cinghiali».

Sono passati dieci anni da quando nel 2014 vennero segnalati i primi focolai nell’Unione europea, tra i cinghiali degli Stati baltici e della Polonia. Oggi, il problema da selvatico è diventato prettamente legato agli allevamenti intensivi. E se restrizioni e divieti richiamano senz’altro quelli imposti agli esseri umani dalla pandemia da Covid-19, anche se in quel caso veniva proibito l’assembramento, mentre oggi i soggetti più a rischio per la diffusione dell’epidemia sono proprio gli animali che vivono ammassati all’interno degli allevamenti intensivi. In molte zone gli unici rimasti, dopo che per impedire il contatto con i cinghiali sono state fermate le attività di tutti coloro che facevano allevamento estensivo e allo stato brado, cioè lasciando gli animali principalmente all’aperto.

Ieri il commissario Filippini ha incontrato la Cia-Agricoltori Italiani, una delle principali associazioni di categoria anche tra gli allevatori. La richiesta arrivata dal sindacato agricolo è «la salvaguardia degli allevatori attraverso indennizzi adeguati e blocco degli oneri, il contenimento massiccio dei cinghiali, principali vettori della peste suina, lo stop temporaneo nelle zone rosse alle attività di caccia, raccolta funghi, trekking, per limitare al massimo la circolazione del virus.

SOLO COSÌ, secondo l’organizzazione, «si può garantire la sopravvivenza delle stalle e fermare l’escalation, che mette a rischio tutto il comparto suinicolo Made in Italy, 26 mila aziende e un valore di oltre 13 miliardi di euro tra produzione e industria».
È un circolo vizioso, perché l’alta concentrazione degli animali all’interno degli allevamenti è parte del problema. Secondo dati riportati da Greenpeace, la zona interessata dal virus nonostante il Piano è arrivata a interessare circa 18 mila km², dai 500 di due anni e mezzo fa. All’interno degli allevamenti, la trasmissione di questo tipo di malattia in termini epidemiologici avviene «per vicinanza»: se un allevamento è infetto, prima o poi il virus arriva anche in quello vicino.

«UNA DELLE PROPOSTE per limitare i danni in caso di epidemie è la creazione di una distanza di sicurezza tra un allevamento e l’altro, riducendo il numero di allevamenti per chilometro quadrato» aveva spiegato quasi un anno fa a Greenpeace Vittorio Guberti, veterinario dell’Ispra. Parole rimaste inascoltate: la Peste Suina Africana non può frenare il Prosciuto di Parma.

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