Per il maestro e leader sindacale Pedro Castillo la vittoria è ormai a un passo. Se per i risultati definitivi, tra schede contestate e accuse di brogli, bisognerà aspettare ancora un po’, con il 99,795% dei voti scrutinati il suo pur ridottissimo vantaggio su Keiko Fujimori (50.206% contro 49.794%) sembra infatti difficilmente ribaltabile.

IL CLIMA, PERÒ, RESTA MOLTO TESO e il lentissimo e snervante spoglio elettorale non aiuta certo a distenderlo. Tanto più a causa della reazione della Signora K, la figlia del dittatore, la quale, senza attendere neppure la fine dello scrutinio e, soprattutto, senza fornire alcuna prova di irregolarità, ha lanciato sulle reti sociali una campagna di denuncia contro presunti brogli. Mentre il portavoce di Fuerza Popular Fernando Rospigliosi ha invitato su Twitter a «difendere il voto con fermezza ed energia di fronte alle minacce e alla prepotenza dei soci di Sendero Luminoso», a cui il fujimorismo riconduce, anche in questo caso senza alcuna prova, il candidato di Perú libre.

Ma in questa offensiva Rospigliosi è in buona e folta compagnia: quella, per esempio, dell’ex capo del comando congiunto delle forze armate Jorge Montoya Manrique, secondo cui la decisione in gioco è «se vivere in democrazia o vivere sotto il comunismo» o quella dei grandi mezzi di comunicazione, che alla favola dell’avanzata del comunismo in Perù e in tutto il continente hanno dedicato pagine su pagine durante tutta la campagna elettorale, invitando a votare «per la democrazia».

FINO AL CASO ECLATANTE del programma televisivo Cuarto Poder, la cui direttrice giornalistica, Clara Elvira Ospina, è stata licenziata per aver preteso una copertura equilibrata della campagna dei due candidati. E sono gli stessi mezzi di comunicazione ad attribuire ora a Castillo, a scrutinio ancora in corso, la responsabilità della caduta della borsa, della crescita del valore del dollaro e dell’aumento dei prezzi di alcuni alimenti.

Ma né l’anacronistica crociata contro il comunismo, né l’evocazione del fantasma di Sendero Luminoso né il sostegno sfacciato della grande stampa sono bastati a convincere la maggioranza dei peruviani a votare per la Signora K. Nelle regioni più duramente provate dalla guerra al terrorismo, come Ayacucho, Huancavelica e Apurímac, Castillo ha anzi ottenuto più dell’80% dei voti.
E neppure sono bastate le promesse via via più inverosimili lanciate da Keiko Fujimori, dal cosiddetto bono oxígeno di 10mila soles (circa 2.600 dollari) per le famiglie di tutte le 180mila vittime del Covid fino alla distribuzione del 40% delle royalty minerarie alle famiglie delle aree interessate da progetti estrattivisti.

UNA PROPOSTA, quest’ultima, che le è valsa persino una denuncia per presunta compravendita di voti da parte di un gruppo di 600 cittadini e che è stata comunque ignorata nelle province minerarie del paese, in alcune delle quali Castillo si è imposto addirittura con oltre il 90% delle preferenze.

È evidente allora come, dopo essere stata già sconfitta nei ballottaggi del 2011 e del 2016 e dopo averle tentate tutte per avere la meglio su Castillo, a Keiko Fujimori non resti altro da fare che gridare ai brogli. E se a smentirla è stata la Missione degli osservatori dell’Unione interamericana degli organismi elettorali, secondo cui il processo elettorale del 6 giugno «è stato organizzato in maniera corretta e in linea con gli standard nazionali e internazionali», c’è da scommettere che il fujimorismo proverà a ostacolare in ogni modo la proclamazione dei risultati definitivi, puntando a generare instabilità nel paese.