Sociologo dell’Università di Aix en Provence e ricercatore del Cnrs, Laurent Mucchielli si occupa da anni della percezione della violenza nella società francese, tema a cui ha dedicato diversi libri, tra cui Quand les banlieues brûlent (2006) e La Frénésie sécuritaire (2008), entrambi pubblicati dalle edizioni La Découverte.

Il sentimento della paura sembra dominante nella società francese dopo la strage di Parigi, come valuta la situazione?

Le rispondo sia come sociologo che come cittadino. Sono anch’io molto spaventato e preoccupato, ma non solo per quanto è accaduto venerdì sera. L’intera classe politica, compreso l’attuale primo ministro socialista Manuel Valls e l’ex presidente di destra Nicolas Sarkozy, oltre a gran parte dei commentatori e dei giornalisti televisivi, vanno ripetendo che «la Francia è in guerra» e che dobbiamo attrezzarci per questo. E’ un messaggio sbagliato e pericoloso che non fa che aumentare la preoccupazione tra i francesi e che finisce inoltre per legittimare in qualche modo l’Isis: non è con uno stato nemico che ci dobbiamo misurare, con qualcuno che può ammantarsi dello status di «combattente», ma con dei terroristi.

Alla paura non si rischia di rispondere con le leggi speciali, con il varo di una sorta di Patriot Act alla francese, come avvenne negli Stati uniti dopo l’11 settembre?

Infatti, ripetere ossessivamente che siamo in guerra è soprattutto utile al fatto di preparare l’opinione pubblica francese all’adozione di una legislazione d’eccezione, a misure eccezionali che riguardino le forze dell’ordine, la magistratura, la censura dei media, il divieto di manifestare. C’è già stata, a poche ore dalla strage, la proclamazione dello stato d’emergenza e ora il governo fa sapere di voler rendere questa misura ancora più stretta e prolungata nel tempo. Eppure, molti studi sulla materia hanno già dimostrato che anche lo stesso piano Vigipirate (che prevede l’utilizzo dei militari nelle città, ndr), adottato da tempo, si è rivelato in gran parte inefficace se non del tutto inutile. A questo si aggiunge la chiusura delle frontiere e un allarme sul tema dei confini che finisce solo per fare il gioco dell’estrema destra e del Front National, oltre ad alimentare l’islamofobia: il tutto a poche settimane dalle elezioni regionali.

Se la retorica pubblica sulla Francia come paese in guerra rischia di alimentare piuttosto che ridurre la paura dei cittadini, sembra non tenere conto del fatto che i terroristi di Parigi erano francesi, venivano da quelle banlieue dove cresce l’esclusione e il malessere sociale prima del radicalismo islamico. Non crede?

Certamente, l’altro problema che pone il linguaggio e le scelte che sta operando in queste ore la politica, a cominciare dall’esecutivo, è proprio quello di non tener conto del fatto che così non si cerca in alcun modo di parlare a quei giovani delle periferie che possono essere affascinati dall’idea di dare un senso alle proprie vite attraverso questa violenza. Al contrario, più si insiste sul fatto che i terroristi di Parigi erano dei “guerrieri nemici” e più si rischia di rafforzarne l’immagine proprio presso quei giovani banlieusard che loro cercano di indottrinare. Non si affrontano le questioni di fondo, come il ruolo internazionale e la politica estera della Francia o i motivi che sono alla base della deriva radicale di migliaia di giovani del nostro paese, ma si adotta un vocabolario della paura che non potrà che condurci verso una situazione ancora peggiore. Sono molto preoccupato.