La 14. Biennale, che apre al pubblico domani in una Venezia un po’ scossa dalla cronaca politica e col sindaco appena arrestato, è curata dall’architetto olandese Rem Koolhaas. Koolhaas è certamente l’architetto più influente del nostro tempo, autore con il suo studio Oma (Office for Metropolitan Architecture) di opere di grande rilievo in Europa, Nordamerica, Russia, Medio e lontano Oriente. Ma il carisma di Koolhaas non si deve solo alla sua produzione professionale e ai suoi libri. Ciò che più colpisce è la sua capacità di cogliere prima i cambiamenti che avvengono sul piano della geopolitica e della macroeconomia globale e di tradurli con velocità quintupla rispetto a tutti gli altri in mutazioni nella concezione e nei confini stessi dell’architettura e soprattutto della figura dell’architetto. Capacità di Koolhaas è avere un dialogo sempre aperto (e che forse perdoniamo solo a lui) con Putin e gli sceicchi, con Toni Negri e l’antagonismo sociale, con Hans Ulrich Obrist – unica intervista concessa – e Miuccia Prada.

Una biennale curata da Koolhaas quindi non è un evento normale, tanto è vero che torna a riprendersi, dopo 14 anni di «economie», la stessa durata della Biennale arte (da giugno a novembre), che coinvolge nello spazio della mostra gli altri settori della Biennale (Teatro, Danza, Cinema), che stabilisce un rapporto decisamente più stretto e collaborativo con i padiglioni nazionali, che decide di dedicare tutte le Corderie a microinchieste sull’Italia. Il tema scelto dall’autore per la mostra è Fundamentals, un’espressione un po’ ermetica (ma certo molto veneziana) per indicare una sommatoria di ricerche sugli elementi materiali primari dell’architettura, di riconsiderazione del lascito della «Modernità» (che quindi tendiamo a considerare conclusa), di ricognizione di microstorie italiane intese come paradigma esemplare ed esasperato del confitto mai risolto tra modernità, legacy, spazio economico e spazio sociale. Tutto questo si riflette in una mostra chiaramente (onore a Koolhaas per una chiarezza alla quale non siamo abituati dai tempi della Strada Novissima) strutturata in tre parti.

Una narrazione interdisciplinare

Nei padiglioni nazionali troviamo un ventaglio molto ampio di ricerche storiche o di riconsiderazione critica del patrimonio storico moderno. Il racconto avviene a volte in modo serio e didascalico, come nel bel padiglione nordico dedicato a una architetto quasi sconosciuto – Karl Hendrik Nostvik – autore di opere spettacolari in Africa negli anni Sessanta e Settanta, o nella seriosa ricostruzione di un edificio modernista e istituzionale del 1964 (residenza ufficiale del cancelliere) all’interno del padiglione. Altre volte l’approccio include una vena storiografica sottilmente ironica, come per la scelta di Jean Louis Cohen di utilizzare la villa di Mon Oncle di Jacques Tati come chiave d’accesso alle contraddizioni della modernità francese o per la ricognizione olandese del lavoro di Jaap Bakema, maestro insospettabilmente attuale e anche molto caro a Koolhaas. Altre ancora la narrazione diventa più eccitata e interdisciplinare, come nel lavoro svolto dai gruppi Crimson e Fat nel padiglione inglese e nella parodia di una «mostra mercato della storia» che troviamo al padiglione russo. Citiamo poi il rigore quasi paradossale del Pavilion Swisse, opera di Obrist e quindi del curatore più vicino a Rem Koolhaas, che offre al pubblico scaffali con gli archivi (preziosi) di Lucius Burkhardt e Cedric Price e stanze (al chiuso e all’aperto) completamente vuote, destinate ad essere occupate temporaneamente dall’accesso discreto dei visitatori ai materiali e dalle «maratone» che coinvolgerannno architetti, critici curatori e artisti (Herzog & De Meuron, Olafur Eliasson, Liam Gillick e molti altri).

I robot delle mappe

Similmente archivistico e «di ricerca», il padiglione americano, «rivestito» da un’interminabile sequenza di dossier dedicati a cento anni di lavori di architetti americani all’estero. Il team curatoriale, composto da Eva Franch (Storefront), Ana Miljacki e Ashley Shafer, ha inteso documentare in questo modo contenuti (e contraddizioni?) della modernizzazione esportata attraverso ambasciate, ospedali e facilities di ogni tipo dai professionisti e dai grandi studi americani. Ancora ricordiamo il bel lavoro ospitato nel padiglione israeliano, vale a dire cinque robot che disegnano e cancellano ininterrottamente sulla sabbia le piante di città prodotte in cento anni di pianificazione in quell’area geografica. Urburb, così si chiama il progetto, racconta come la forma delle città si perda come sulla sabbia, per fondersi in un tessuto comunque indeterminato, né centro, né periferia, né paesaggio.

Interessante anche il padiglione coreano, che offre un ottimo esempio, soprattutto attraverso il lavoro di Kim Swoo Geun, fondatore dell’eroico Space Group e autore negli decenni caldi (Sessanta e seguenti) di progetti metabolisti spettacolari e quasi del tutto ignoti al pubblico occidentale. Tra i nostri candidati alla vittoria (se fossimo in giuria) includeremmo certamente il padiglione cileno, un monolito prefabbricato realizzato nel 1974 che era allo stesso tempo modulo costruttivo e discusso monumento (con firma «al vivo» di Allende) al trionfo modernista della prefabbricazione. I curatori, Pedro Alonso e Hugo Palmarola, danno una delle migliori risposte possibili al tema proposto da Koolhaas, vale a dire come trasformare un elemento e una ricerca storica, politica e architettonica in un evento espositivo efficace e sintetico, sharp, short, straigh to the point.

Dietro il labirinto

Veniamo al Padiglione Centrale. I temi elementari sono trattati in modo diverso. I corridoi si riassumono in un labirinto, le finestre trasferiscono ai Giardini un dispositivo di fabbricazione attuale e un vero catalogo di infissi storici reperiti in un museo inglese specializzato, «the Brooking National Collection». Il soffitto, curato dall’italiano Manfredo di Robilant, sfida la storica cupola decorata di Chini che nei momenti difficili ha (purtroppo) salvato il brutto Padiglione Italia. Nel «bagno», uno dei migliori, riaffiora l’ironia koolhasiana e la documentazione degli usi alternativi dei gabinetti. Notevoli gli spazi dedicati alle rampe – un topos mdernista – attraverso il lavoro del grande Claude Parent e dell’architetto disabile Tim Nugent.

Più seri gli ambienti dedicati alle facciate (Alejando Zaera-Polo) e ai balconi (Tom Avermaete), deve però troviamo una visione fotografica più ampia e uno spettacolare moucharabieh affacciato sulla rotonda centrale. Più autoriali e devianti i lavori sulla «porta», il camino, i tetti (cinesi), mentre delude un po’ la speculazione su un tema iperkoolhaasiano come l’ascensore. Insomma, è un catalogo chiaro, ci ricorda che l’architettura è una miscela complessa di permanenze e cambiamenti vertiginosi, ci propone forse di «ripartire da zero»(?). Rispetto ad altre parti della mostra, «Elements of architecture» ha molto più rapporto col catalogo, che prolunga idealmente i «manuali storici» esposti in mostra.

Viene da chiedersi se il messaggio di Koolhaas sia tutto in questa tabula «non proprio rasa» da cui ricominciare o se c’è qualche messaggio più complesso e meno dichiarato. Di certo l’importanza data alla ricerca, che sarà la croce e la delizia di questa biennale. Poi l’interessante e contraddittoria esclusione degli «autori», operata dalla più autorevole delle star. E ancora la conseguente fiducia che i temi e il senso dell’architettura oggi possano sopravvivere alla vivisezione nelle parti che la compongono.

Quest’ultima domanda, alla quale non è facile dare una risposta, è la vera scommessa di questa mostra, la sua capacità o meno di accendere un dialogo più ampio rispetto alla comunità globale dei molto addetti ai lavori presente in questi giorni in laguna e alla incredibile rete di produzione e comunicazione koolhaasiana (non solo Amo, la struttura di ricerca del suo studio ma anche i molti direttori dei padiglioni e di parti specifiche della mostra a lui legati) affiorata finalmente in superficie in questa biennale. Ci rimane poco spazio per Monditalia, un esperimento invece molto interessante. Seguito da un partner italiano di Oma, Ippolito Pestellini, accoglie «inchieste» e materiali molto diversi e frammenti sparsi della cultura moderna italiana.

Difficili sequenze

Una volta capito come muoversi nella non facile sequenza di installazioni troviamo da un lato aspetti un po’ didascalici, soprattutto nella scelta dei film e nell’eterno ritorno di alcuni temi italiani (Pompei, Villa Malaparte, terremoti vari, dismissioni e sensi di colpa), ma anche scoperte e sguardi interessanti, modi di guardare tra le cose che non avevamo in mente. È un’altra parte che va rivista e commentata con spazio e tempo, ma intanto citiamo alcuni lavori che per vari motivi mi sono già rimasti in mente, Cassani e lo spazio sacro, gli stARTT e gli edifici pubblici storici vuoti al centro di Roma, l’omaggio a Superstudio e quello all’Effimero, specificità italiana da riconsiderare e la citazione affettuosa di Superstudio, gli italian limes del gruppo Folder, i Landscape di Russi e diversi altri, sui quali torneremo certamente.