Voterò Elly Schlein alle primarie del nuovo Partito Democratico perché la sua candidatura rappresenta innanzitutto una domanda. Una domanda di rappresentanza. Per chi come me non ha mai militato nel Pd, per chi lo ha fondato e ci è sempre stato, per chi lo ha lasciato o ne è stato cacciato, per chi non lo ha mai votato o ha smesso di votarlo. Ma soprattutto per chi pensa che serva continuare un processo costituente che metta in piedi quello che ancora non c’è: un grande partito del lavoro, socialista ed ecologista.

La domanda Schlein non interpreta semplicemente un’ansia di rinnovamento che vive indubbiamente tra quell’elettorato sfibrato e deluso che oggi non vuole più investire nella forza più grande del campo progressista e che pensa che la sua funzione storica e politica si sia ormai esaurita. Il suo messaggio interroga innanzitutto molte delle sfide del nostro tempo: come coniugare la lotta per la giustizia sociale con l’urgenza della giustizia climatica. Non siamo davanti a un’affermazione profetica, siamo davanti a una novità che nessuna generazione ha vissuto. Il virus ci ha raccontato quanto è fragile l’equilibrio del pianeta, scoperchiando i ritardi e le fratture di un modello sociale che non garantisce più ascensore sociale, universalismo dei diritti e accesso ai beni comuni. Ce lo raccontano le guerre e le migrazioni mai tanto diffuse e che – accanto al riemergere dalle ceneri della storia di rigurgiti imperialisti, di faglie etnonazionaliste, di risentimenti religiosi – sono sempre più causate dall’impatto dei cambiamenti climatici sulla vita dei popoli.

Chi oggi subisce di più la perdita di potere d’acquisto è strettamente imparentato con chi vive le conseguenze degli strappi dell’ecosistema. Fine del mese e fine del mondo: per sintetizzarlo con uno slogan efficace. Non si può aggiustare un modello di sviluppo che produce a ripetizione questi choc, bisogna cambiarlo in profondità riproponendo una moderna critica al capitalismo che mai come in questa fase è sotto attacco persino da chi ne ha beneficiato di più e ne vede i limiti crescenti per la stessa esistenza del genere umano. La tassazione iniqua innanzitutto che espelle dall’orizzonte il welfare come fattore di crescita sociale ed equilibrata e dunque di tenuta delle democrazie liberali. La precarietà che ha trasformato il lavoro in maniera irreversibile, riducendolo a uno sgabello per chi immagina la conversione produttiva solo come un problema di costi. La secessione dei ricchi spacciata per federalismo che punta a spaccare il paese e a costituzionalizzare i divari sociali.

Serve una sinistra che abbia lo sguardo del giorno prima, non quella che il giorno dopo prova a mettere qualche toppa: non è stato così sul Jobs Act, sull’autonomia differenziata e forse non sarà così forse anche davanti all’escalation della guerra nel cuore dell’Europa. Nessuno ce la fa da solo perché il nodo non è soltanto scegliere una leadership e tutti i candidati in campo sono persone serie e competenti. Il compito di chi dirigerà sarà quello di concentrarsi sulla natura del soggetto politico – come abbiamo faticosamente fatto con il Manifesto del nuovo Pd – e sulla sua capacità di «fare storia». Oggi serve un’identità, un’organizzazione e anche una politica di alleanze: non c’è un primo e un secondo tempo. Tutto si tiene. E per unire le forze di progresso e costruire l’alternativa a questa destra io oggi vedo Elly.

* Coordinatore Articolo 1