Pensato per essere il Festival della ripartenza, è finito con coincidere con novelle chiusure, come a suggellare l’abisso che talvolta corre, soprattutto in tempi di pandemia, fra speranza e realtà, desiderio e cruda verità. Nessuno poteva saperlo, ma prevederlo forse sì se si fosse voluto davvero guardare negli occhi il vai e vieni dei Dpcm che da un anno ci dicono «Ora chiudete, adesso riaprite, no ci siamo sbagliati riaprite a metà, adesso cambiamo i colori e facciamo sfumature, i negozi sì ma la scuola no, i teatri manco per niente».
Forse bisognava avere il coraggio di immaginare che cosa significa fare un festival, pensato con il pubblico lì davanti, senza pubbico affatto, anzi con dei palloncini al posto di gente che applaude, si scalda, commenta, urla, ride, si annoia, insomma partecipa. Perché, anche se sei seduto sul divano di casa, questa assenza si nota, anzi urla, e se la sentiamo noi da uno schermo, figurarsi i cantanti e gli artisti che di pubblico e con il pubblico vivono.

FORSE BISOGNAVA avere il coraggio, o l’inventiva, di pensare a una formula completamente nuova, magari in studio, con montaggi, spazi, scenografie, tempi, inquadrature e luci diverse, sapientemente studiate, senza quella gradinata precipitata sulla platea vuota e che ormai dà più pensieri che lustro a chi la scende, per dare alle canzoni e alla musica quel respiro che un festival del genere dovrebbe offrire. Invece si è scelto di tenere il piede in due scarpe, anzi di guardare al passato offrendo una bulimica sfilata di siparietti a volte da asilo Mariuccia, una folla di ospiti e qualche caso sensibile, fiduciosi che il pubblico, obbligato a restare a casa dal coprifuoco, avrebbe seguito comunque lo spettacolo anche se il brodo veniva allungato fino alle due del mattino, e che avrebbe perdonato alcune defaillance tecniche (microfoni che non funzionano, playback fuori sincrono, inquadrature che impallano). Invece no, alcuni milioni di spettatori hanno declinato l’invito facendo precipitare questa edizione fra le peggiori dal 2004 a oggi in termini di ascolto.
Quindi non è vero che Sanremo è sempre Sanremo e a poco serve dire che è tutta colpa del virus. Il virus sta facendo il suo sporco lavoro, ma siamo noi a doverci inventare idee alternative, così come un mondo nuovo e un nuovo modo di fare televisione.

C’E’ POI UN PARADOSSO Questo Sanremo 21, per il solo fatto di essere andato in scena, ha mostrato la sua morte, o meglio il rischio di una morte collettiva. Se l’essere vivente non può toccarsi, guardarsi negli occhi, vedersi da vicino e dal vero è destinato a perire prima nell’immaginario, poi anche con il corpo. Tutti coloro che lavorano nel mondo del teatro, della musica e dello spettacolo lo stanno sperimentato sulla loro carne viva da un anno. Per gli altri è solo questione di tempo. Quindi, dateci sto vaccino, e poi fate tutti i Sanremo che volete e come volete, chi vorrà guardarli li guarderà e chi non vorrà non lo farà, ma almeno saremo liberi di scegliere.