La decisione statunitense di non porre il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che chiede un cessate il fuoco immediato a Gaza – la prima volta dall’inizio della guerra, permettendo a una simile risoluzione di passare – ha prodotto ondate di choc in Israele.

La conseguente cancellazione da parte di Benyamin Netanyahu dell’incontro pianificato con l’amministrazione Biden a Washington non ha fatto che amplificare l’impressione che Israele sia stato isolato nell’area internazionale e che il primo ministro abbia messo a repentaglio il più importante asset del paese: la sua alleanza con gli Stati uniti.

EPPURE, sebbene sia diffusa la critica al modo in cui Netanyahu ha gestito un tema tanto delicato, anche i suoi oppositori – sia del campo “liberale” sia della destra moderata – hanno rigettato all’unanimità il voto all’Onu. Yair Lapid, leader del partito di opposizione Yesh Atid, ha detto che la risoluzione è «pericolosa, ingiusta e Israele non l’accetterà».

Il ministro Hili Tropper, stretto alleato del rivale di Netanyahu, Benny Gantz – che secondo i sondaggi vincerebbe senza sforzo se le elezioni si tenessero oggi – ha detto: «La guerra non deve finire». Tali commenti non si sono granché differenziati dalle reazioni furiose dei leader dell’estrema destra come Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir.

Il rigetto pressoché unanime del cessate il fuoco rispecchia il sostegno trans-partitico all’invasione della città di Rafah, nel sud di Gaza, anche se Netanyahu non dice che l’operazione permetterà di conseguire la tanto attesa «vittoria totale» che ha promesso.

L’opposizione a un cessate il fuoco potrebbe apparire strana. Molti israeliani condividono l’opinione che Netanyahu continui la guerra per interessi politici e personali. Le famiglie degli ostaggi israeliani, ad esempio, sono sempre più critiche del modo in cui Netanyahu trascina il conflitto e amplificano la richiesta di un «accordo subito». Anche dentro il sistema di sicurezza israeliano, sempre più persone dicono apertamente che «eliminare Hamas» non è un obiettivo raggiungibile.

«Dire che un giorno ci sarà una vittoria completa a Gaza è una bugia – ha di recente detto l’ex portavoce dell’esercito israeliano . Israele non può eliminare del tutto Hamas in un’operazione di qualche mese».

Dunque, se l’idea che Netanyahu prosegua nella guerra per calcoli personali sta montando; se la futilità del continuarla è sempre più palese, sia riguardo alla sconfitta di Hamas che alla liberazione degli ostaggi; se sta diventando ovvio che andare avanti con la guerra danneggerà i rapporti con gli Stati uniti, come si può spiegare il consenso in Israele rispetto al «pericolo» del cessate il fuoco?

Una spiegazione è il trauma inflitto dal massacro di Hamas del 7 ottobre. Molti israeliani si dicono che, finché Hamas esisterà e godrà di sostegno popolare, non ci saranno alternative alla guerra.

UNA SECONDA spiegazione è legata all’innegabile talento retorico di Netanyahu che, nonostante la sua debolezza politica, è riuscito a instillare l’idea di una «vittoria totale» anche tra chi non crede a una parola di quello che il premier dice e tra chi capisce, più o meno consapevolmente, che quella vittoria non è possibile.

Ma c’è anche un’altra spiegazione. Fino al 6 ottobre, l’opinione pubblica ebraico-israeliana era concorde sul fatto che la «questione palestinese» non avrebbe dovuto essere fonte di preoccupazione. Il 7 ottobre ha mandato in frantumi questo mito. La questione palestinese è tornata, con piena e sanguinosa forza, nell’agenda.

C’erano due risposte possibili alla distruzione di quello status quo: un accordo politico che riconoscesse davvero la presenza di un altro popolo su questa terra e il suo diritto a una vita di dignità e libertà; o una guerra di estinzione contro il nemico oltre il muro. L’opinione pubblica ebraica, che non ha mai davvero interiorizzato la prima opzione, ha scelto la seconda. Alla luce di ciò, la sola idea di un cessate il fuoco appare una minaccia.

Costringerebbe l’opinione pubblica a riconoscere che gli obiettivi presentati da Netanyahu e dall’esercito – rovesciare Hamas e rilasciare gli ostaggi attraverso la pressione militare – sono semplicemente irrealistici. Dopo il trauma e l’umiliazione del 7 ottobre, per molti è difficile digerirlo.

Ma c’è una minaccia più profonda. Un cessate il fuoco potrebbe costringere l’opinione pubblica ebraica a confrontarsi con questioni molto più importanti. Se lo status quo non funziona e la guerra costante con i palestinesi non condurrà mai alla vittoria desiderata, non rimane che la verità: che il solo modo per gli ebrei di vivere in sicurezza è attraverso un compromesso politico che rispetti i diritti dei palestinesi.

IL RIGETTO completo del cessate il fuoco e il dipingerlo come una minaccia per Israele mostrano che siamo lontani dall’ammettere questa verità. Ma stranamente potremmo esserci più vicini di quanto si pensi. Nel 1992, quando gli israeliani furono costretti a scegliere tra una rottura con gli Stati uniti – a causa del rifiuto dell’allora premier Shamir ad accettare la cornice americana di negoziato con i palestinesi – e il rammendo di quella spaccatura, scelsero la seconda opzione. Rabin fu eletto primo ministro e un anno dopo furono firmati gli Accordi di Oslo.

L’attuale screzio con l’amministrazione statunitense convincerà gli ebrei israeliani ad abbandonare l’idea di una guerra perpetua e a dare una chance all’accordo politico con i palestinesi? Non è per nulla chiaro. Quel che è certo è che Israele sta rapidamente raggiungendo un bivio e dovrà scegliere dove andare: verso un cessate il fuoco e la possibilità di dialogo con i palestinesi, o verso una guerra senza fine e un isolamento internazionale che non ha mai conosciuto. Perché l’opzione di tornare indietro, allo status quo del 6 ottobre, è chiaramente impossibile.

Pubblicato originariamente su +972 in collaborazione con The Nation