Da decenni la delocalizzazione produttiva in Paesi a basso costo di manodopera costituisce l’arma più potente di ricatto e sfruttamento del lavoro anche nei Paesi più sviluppati. Il fenomeno ha raggiunto proporzioni insospettate da gran parte dell’opinione pubblica.

Nel 2019 lo stock di investimenti all’estero dai maggiori Stati europei ha raggiunto il 28 % del Pil in Italia, il 46 % in Germania, il 56% in Francia e addirittura il 67% in Gran Bretagna. Perfino negli Usa, pur fortemente attrattori di capitali, la somma degli investimenti all’estero nel 2019 è stata del 36% del Pil.

A delocalizzazioni tanto massicce corrisponde il venir meno di posti di lavoro potenziali in proporzioni altrettanto consistenti. Agli stock sopra indicati corrispondono circa 2,616 milioni di occupati mancanti in Italia, 7,770 milioni in Germania, 6,087 milioni in Francia, 8,790 milioni in Gran Bretagna e 22,684 milioni negli Usa (calcoli basati sulla legge di Okun).

Né può consolare l’ipotesi che i lavoratori dei Paesi meno sviluppati hanno tratto vantaggio dal fenomeno. Infatti il super-sfruttamento del loro lavoro, accompagnato all’arretratezza delle condizioni di vita sono i maggiori fattori attrattivi di capitali dall’estero. Del resto il permanere di questo stato di cose è testimoniato dai flussi migratori provenienti dalle macro-regioni più arretrate d’Asia, Africa e America Latina, mete di delocalizzazioni.

Sicché un forte impegno per contrastare il fenomeno è necessario per migliorare le condizioni dei lavoratori sia del Sud che del Nord del mondo.

E per quanto riguarda i Paesi del Nord, è del tutto ingannevole l’argomento che troppo spesso si sente ripetere, secondo il quale una politica di deciso ostacolo alla delocalizzazione negli Stati dove hanno sede le multinazionali, avrebbe come effetto lo scoraggiamento di investimenti provenienti da altri Paesi. Infatti i fattori che muovono investimenti dall’estero nei Paesi più sviluppati sono completamente diversi dall’impiego di manodopera a basso o bassissimo costo, assenza di vincoli ambientali ed altre facilitazioni riscontrabili in stretta connessione con condizioni di arretratezza e sottosviluppo.

Gli obiettivi degli investimenti provenienti dagli altri Stati economicamente e tecnologicamente più sviluppati mirano piuttosto a rafforzare partenariati ed alleanze interne al blocco di potere tardo capitalista. E a tale scopo obbediscono alla stessa logica contingente, utilitaria e irresponsabile che ha provocato gli squilibri ecologici, demografici e sociali divenuti insostenibili per tutti gli abitanti della Terra.

Anche la delocalizzazione è strumento di quegli obiettivi ed obbedisce alla medesima logica. Per questo non si può non dico correggerla, ma nemmeno affrontarla con pseudo-riforme del tutto consentanee agli interessi che la dettano.

In questo, come in altri casi, occorre porsi in una prospettiva affatto diversa. È necessario mettere mano a politiche economiche e sociali di lungo respiro che abbiano di mira programmi produttivi rispondenti ai bisogni generali delle popolazioni. Politiche che si basino su una valorizzazione del lavoro, non solo in termini economici, ma di definizione dei rapporti sociali, nonché tali da consentire la piena espressione della volontà e intelligenza delle persone. Politiche capaci di affermare una nuova universalità dei diritti in nome e per conto di tutto il popolo mondo.

Si tratta insomma di una prospettiva completamente antitetica a strumenti di mero e prepotente profitto come la delocalizzazione.