«Per il Milan arriverà un closing mutilato»
Il football e il soft power Intervista con Alberto Forchielli economista e imprenditore: uno dei pochi a nutrire fin da subito molti dubbi sull’acquisto cinese della società di Berlusconi. Pensando di compiacere Xi Jinping i sindaci si sono rivolti agli immobiliaristi per ottenere gli investimenti necessari a mettere in piedi le squadre locali
Il football e il soft power Intervista con Alberto Forchielli economista e imprenditore: uno dei pochi a nutrire fin da subito molti dubbi sull’acquisto cinese della società di Berlusconi. Pensando di compiacere Xi Jinping i sindaci si sono rivolti agli immobiliaristi per ottenere gli investimenti necessari a mettere in piedi le squadre locali
Alberto Forchielli è un imprenditore, economista e blogger italiano esperto di economia e di affari internazionali, con focus su Cina, India, Stati Uniti, Germania, Sud Est Asiatico e Singapore.
È stato consigliere senior advisor per la Banca Mondiale a Washington, fino al distaccamento, negli anni 2000, presso la Banca europea degli investimenti, in Lussemburgo.
È presidente e fondatore del centro di ricerche Osservatorio Asia e amministratore delegato di Mandarin Capital Partners, fondo di private equity che crea collegamenti tra medie aziende europee e partner commerciali e industriali cinesi.
È stato uno dei pochi a nutrire fin da subito molti dubbi sull’acquisto cinese del Milan, attirandosi critiche e minacce.
Dal 2015 a oggi, le compagnie cinesi hanno comperato oltre una dozzina di club calcistici, tra cui il Manchester City, l’Aston Villa e l’Atletico Madrid, mentre l’interesse delle aziende cinesi si è esteso anche al media marketing, come suggerisce l’acquisizione di Infront da parte della conglomerata Wanda. Il quotidiano People’s Daily ha aspramente criticato questa politica, sostenendo che i club devono controllare le loro spese per poter programmare un piano sostenibile negli anni, puntando sugli sponsor, la strutturazione di una fan base, una gestione manageriale corretta, in grado di alimentare i consumi interni per poi tentare operazioni di branding verso l’estero. Il calcio fa parte del cosiddetto «sogno cinese» promosso da Pechino. Cos’è che è andato storto?
Il governo ha già bloccato tutti gli investimenti delle squadre calcistiche e il governatore della banca centrale cinese Zhou Xiaochuan ha detto che sono soldi buttati, perché non portano nessun valore al paese.
Un messaggio che però sembra contraddire quanto affermato lo scorso anno dal presidente Xi Jinping, noto appassionato di calcio e preoccupato per gli insuccessi della nazionale cinese. Secondo un programma strategico dello scorso aprile, la Cina dovrà diventare una «superpotenza del calcio» entro il 2050.
Xi Jinping ha semplicemente esortato i cinesi a migliorare le loro capacità calcistiche e ad aprire delle scuole. Ha dichiarato che vorrebbe ospitare i Mondiali di calcio.
Poi naturalmente i privati hanno preso la cosa alla lettera, interpretandola a modo loro. Pensando di ingraziarsi il presidente, hanno cominciato a comprare club all’estero.
Finché la situazione non è scappata di mano: i soldi erano troppi e c’era il sospetto atroce che tutti ci stessero facendo su la cresta. Per questo il governo ha bloccato tutto: da questa stagione le squadre cinesi non possono mettere in campo più di 3 giocatori strnieri contemporaneamente e gli investimenti in squadre di calcio vengono ormai cassati.
Spiegando l’inversione di tendenza, Zhou ha chiarito che questo «change in sentiment» rispecchia la presa di coscienza di Pechino davanti all’evidenza che la gente stava iniziando ad approfittarsi della situazione e a fare quel che spesso si fa anche in Italia: gran creste e fondi neri.
Il calcio cinese sta investendo miliardi di dollari, ma non produce degli utili. Ognuno dei 16 club della Super League, in media, è in perdita di 74 milioni di dollari. La vera colpa dei club cinesi è quella di non essere riusciti a fidelizzare la clientela di massa e non aver adottato una strategia di branding per puntare sui consumi interni. Vede qualche possibilità di miglioramento, magari cercando di investire di più nella formazione o nella gestione dei diritti mediatici e di marketing?
Per esempio Wanda ha fatto sapere di voler dedicarsi soprattutto all’organizzazione di eventi sportivi, privilegiando il rapporto con associazioni e organismi sportivi piuttosto che con i club.
Sì, sicuramente una buona strada può essere quella della formazione, con l’apertura di nuove scuole di calcio. Il vero problema è che in Cina i ragazzi studiano troppo, quindi non hanno tempo di giocare.
Questo è un vero dilemma. Per andare avanti nella vita i giovani sono sottoposti a continui e durissimi esami, mentre per imparare a giocare bene a pallone bisogna allenarsi dodici ore al giorno.
Basta vedere chi eccelle nel calcio. Le migliori squadre l’Argentina le aveva quando era nel totale disastro economico. Idem il Brasile. In questi paesi i bambini cominciano a impratichirsi nelle favelas. Nel caso della Cina si tratta di risultati a lungo termine e duri a venire.
Il calcio è soprattutto «entertainment». È corretto leggere le velleità calcistiche della Cina in chiave economica, ossia come catalizzatore per la transizione verso un modello di crescita basato sulla spesa interna? Qualcosa di simili lo stiamo vedendo con le operazioni finanziarie nel settore cinematografico.
Sì, l’intrattenimento e lo sport in generale è consumo, soprattutto consumo virtuale e non materiale. Il che, in un paese come la Cina, permette di evitare disagi legati al sovraffollamento negli spazi pubblici; traffico e problemi di parcheggi.
Ma sarebbe riduttivo limitare l’enfasi sul calcio a un fattore economico. È prima di tutto una forma di «soft power».
Non può una grande nazione quale è la Cina posizionarsi 86esima nella classifica Fifa dopo Capo Verde. Avere campionati sportivi rinomati, come quello americano di basket o la Premier League inglese, è un fattore di prestigio internazionale e attira visitatori dall’estero.
I club cinesi stanno calamitando soprattutto gli investimenti di società immobiliari; entrambe le squadre di Guangzhou hanno alle spalle società di real estate. Quanto le sorti del calcio cinese sono legate all’andamento della bolla del mattone?
Circa il 50% degli uomini più ricchi della Cina hanno fatto i soldi facili con l’immobiliare. I grandi capitali sono stati accumulati con il mattone, per cui è chiaro che esiste una correlazione. Inoltre, gli immobiliaristi sono i soggetti più vicini al potere politico, perché sono quelli che devono ottenere i terreni pubblici su cui costruire.
Pensando di compiacere Xi Jinping, è a loro che si sono rivolti i vari sindaci per ottenere gli investimenti necessari a mettere in piedi le varie squadre locali. È più facile imbrigliare un costruttore che un grande industriale che deve girare tutto il mondo. Allo stesso tempo, gli immobiliaristi sono quelli che hanno maggior interesse a speculare sulle infrastrutture sportive, come gli stadi.
E Pechino sta investendo massicciamente in un piano di urbanizzazione a misura d’uomo che punta a rivalutare gli spazi per l’intrattenimento, parchi, cinema, campi sportivi. Quindi, sì, le due cose sono collegate.
Come accennava, a gennaio la Chinese Football Association ha introdotto 18 nuove regole sulla spesa dei giocatori stranieri (già da questa stagione i club non potranno metterne in campo più di 3 contemporaneamente), cui si aggiungono nuove e più generiche limitazioni sugli investimenti all’estero. Tutto questo basterà a raffreddare il mercato?
Il problema è già risolto. È bastato non dare più la valuta. Chi è riuscito a portare i capitali all’estero prima della stretta normativa ora se li tiene cari.
Non ha voglia di buttarli via. Per di più, una volta che il governo cinese ha reso noto che gli investimenti nel calcio non sono più cosa gradita, non sono molti i cinesi ad aver voglia di fare i «pierini» sfidando le direttive di Pechino. Poi le date degli ultimi acquisti parlano chiaro: recentemente non hanno più comprato nessuna squadra e nessun grosso giocatore.
Questo non sembra remare a favore del travagliato closing del Milan. Secondo lei, l’odissea della squadra rossonera è in qualche modo legata alla natura dell’investitore? D’altronde l’acquisizione dell’Inter non ha dato problemi. Da una parte abbiamo Suning, colosso di elettrodomestici e costruzioni già proprietario del Jiangsu e dei diritti di trasmissione della Premier League.
Dall’altra c’è Sino-Europe Sports (Ses), una società privata poco conosciuta, ma che a lungo si è creduto avesse tra i propri investitori un fondo vicino al governo di Pechino.
La differenza tra i due è semplice: nel caso dell’Inter l’investitore aveva i soldi e ha strappato subito l’assegno. Quello del Milan invece non li aveva tutti, quindi dopo aver pagato la caparra è andato a cercare la cifra mancante senza trovarla.
Le voci che erano circolate all’inizio su un presunto coinvolgimento statale sono state diffuse da una stampa venduta e male informata, e successivamente smentite. È stato proprio il governo cinese a bloccare l’operazione, non autorizzando lo spostamento dei soldi fuori dalla Cina.
Insomma, la sfortuna del presidente di Ses Li Yonghong è stata quella di trovarsi a operare in una fase di transizione, quando le direttive delle autorità sugli investimenti calcistici erano ancora poco chiare.
Il poveretto è rimasto con le palle chiuse nello sportello. La prima caparra di 100 milioni gliel’hanno fatta passare, la seconda gliel’hanno bloccata – l’ha dovuta pagare con fondi già all’estero – e ora non sa più dove prendere i soldi per il saldo.
Inoltre, è bene ricordare che mentre qui da noi Li Yonghong veniva osannato e si parlava di una grande cordata con tutte le banche statali presenti, in Cina in realtà veniva vilipeso. Questo è segno innanzitutto della provincialità totale di questo paese.
Allo stesso tempo, ovviamente c’è dietro anche un gioco politico: Fininvest ha sempre cercato di descrivere l’accordo come una grande operazione per gasare i tifosi preoccupati. Non potevano riconoscere di aver venduto la squadra a uno squattrinato. Per una questione di prestigio faceva loro comodo che si credesse ci fosse di mezzo il governo cinese.
Il primo errore è stato quello di lasciare la vendita nelle mani di mister Bee, l’imprenditore thailandese che avrebbe dovuto raccogliere i capitali prima in Thailandia e poi in Cina. Una figura scarsamente considerata dai cinesi.
Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro?
Difficile da dire. Abbiamo da una parte un compratore disperato, che ormai ha già versato la caparra di 200 milioni e farà di tutto per non perderla, e dall’altra un venditore disperato (la Fininvest) che da anni cerca di vendere, prendendo cantonate gigantesche, e non può più permettersi quei 100 milioni l’anno di costi, perché né Mediaset né Mondadori fanno più cassa. Si deve sbarazzare di questa roba.
Per cui credo che alla fine si verranno incontro. Faranno quello che io definisco un «closing mutilato»: molto rateizzato e molto scontato.
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