Una sorta di pagliaccio mediatico che, con il capillare sostegno dei social, ascende al ruolo di Presidente della Repubblica e, quando gli si fa notare che la sua politica economica ha provocato un vertiginoso aumento di coloro che vivono sotto la soglia di povertà, si limita a rispondere con un sorriso un po’ folle: «La vita è crudele»; una ex astrologa e pasticcera dilettante diventata un’onnipotente presidentessa-ombra; una senatrice cosplayer e terrapiattista scelta per guidare la Comisión de Ciencia; una veterinaria-medium in costante contatto con lo spirito del defunto cane presidenziale… Non si tratta di un comic che dilata e rinnova i fasti del mai dimenticato Tenebrax di Lob e Pichard: è ciò che succede nell’Argentina di oggi. Aveva dunque ragione la sociologa Maristella Svampa quando, su openDemocracy, parlava del trionfo di Javier Milei come di una «distopia in marcia»?

MOLTI ANNI PRIMA della desolata constatazione di Svampa, Tomás Eloy Martínez (grande scrittore e grandissimo giornalista argentino) sosteneva che il linguaggio più adatto a raccontare la politica del suo paese non appartiene a sociologi, storici o politologi, ma alla letteratura.

Lo ha ricordato di recente Adrian Melo in un acuto articolo apparso sul quotidiano Pagina/12, in cui fa un breve elenco dei personaggi e degli eventi nazionali passati e presenti, la cui feroce bizzarria «non sembra trovare, per manifestarsi, canale più adeguato della finzione narrativa». E ci si potrebbe spingere anche più in là, sostenendo che spesso la letteratura argentina ha mostrato di possedere una sfumatura profetica, come avviene nei romanzi di Roberto Arlt, I sette pazzi e I lanciafiamme (entrambi pubblicati da Sur) che sembrano annunciare il colpo di stato del 1930, o in Juana Tabor e 666, dittico in cui Hugo Wast (alias Gustavo Martínez Zuviría, politico antisemita e ultracattolico, oltre che popolare scrittore) raccontò nel 1942 la deposizione di una Presidente a opera di un «provvidenziale» golpe militare: in pratica, quel che sarebbe avvenuto nel 1976 con l’arresto di Isabelita Perón e l’avvento del Proceso de Reorganización Nacional.

Non c’è da stupirsi, allora, se in Argentina si è sviluppata una narrativa che somma alle ombre di un passato ineludibile le traumatiche visioni di quel che potrebbe accadere, o meglio che già accade, visto che nelle più recenti distorsioni distopiche – si tratti di scritture raffinate e complesse o di semplici «prodotti» commerciali – affiorano timori, rischi e tensioni del presente, quasi ad anticipare la realtà mileista.

Tra i tanti autori impegnati su questo fronte, come non citare Mariano Ludueña, che nel 2021 (l’anno in cui Milei fondò La Libertad Avanza, all’epoca movimento irrilevante e vagamente folcloristico) ha scritto Nuestra Señora de las Navidades, noir pubblicato l’anno scorso da Muy Bueno Ediciones. Siamo nella Buenos Aires del 2030, con temperature che superano i 50°, carri armati nelle strade, folle immense che assediano la Casa Rosada, e l’incipit ha il sapore del presagio: «La catastrofe ebbe inizio nel 2025, durante il primo governo fascista-neoliberista. La patata bollente rimase in mano al candidato che aveva promesso di ripristinare la pena di morte, mettere in galera i corrotti e dollarizzare l’economia.(…) Nel dicembre del 2028, il 65% della popolazione viveva sotto la soglia di povertà…». E che dire dell’ironico La venta di Fabio Mazía (qeja ediciones, 2022) sull’acquisto dell’intero territorio argentino da parte di Google, che prefigura il destino di un paese privatizzato e in attesa del miglior offerente, o di El oficinista di Guillermo Saccomanno (Seix Barral, 2010), ritratto di una città dove enormi cani clonati contendono il cibo a uomini privati di tutto dalla perdita improvvisa del lavoro?

LA POSSIBILITÀ DI AVVICINARSI a questa letteratura abbondante e varia, ma quasi mai esportata, ci viene ora offerta dall’edizione italiana di un singolare romanzo del 2017, già pubblicato in ventisei paesi con notevole successo: Cadavere squisito (Eris, pp. 253, euro 16, traduzione di Francesca Signorello) di Agustina Bazterrica, autrice che, come tutti i «distopici», mette in comunicazione generi diversi e fa ricorso a citazioni d’ogni tipo, non ultime quelle di un testo fondante della letteratura argentina, El matadero di Esteban Echevarría, di un romanzo imprescindibile come Il testimone di Juan José Saer (La Nuova Frontiera, 2023), o di film come 2022: i sopravvissuti.

Il titolo (che rimanda a un celebre gioco surrealista, nonché all’orrorifico Exquisite corps di Poppy Z. Brite, del 1996), va interpretato in senso letterale, perché i cadaveri in questione sono quelli di uomini e donne allevati per essere mangiati, dopo che un virus sconosciuto ha colpito gli animali e costretto l’umanità a eliminarli tutti, per evitare il salto di specie e una colossale pandemia. La fame di carne – a suo tempo analizzata, senza trascurare il cannibalismo, dall’antropologo Marvin Harris nel suo Buono da mangiare (Einaudi, 1992) – sembra però insopprimibile, e immigrati, vagabondi e abitanti delle baraccopoli, corpi che «non contano» e che nessuno reclama, cominciano a sparire per essere macellati clandestinamente.
Al grido di «la carne è carne», all’orrore iniziale si sostituisce l’ accettazione, il cibo «speciale» viene legalizzato e la potente industria che prima presiedeva all’allevamento, al macello e alla vendita degli animali provvede ora a rifornire i supermercati con esseri umani privati delle corde vocali e di un nome, marchiati e indicati con gli stessi termini un tempo in uso per vitelli o manzi. Ben consapevoli del potere del linguaggio, che crea e disfa la realtà, i governi impongono di chiamarli «capi di bestiame», e «cannibalismo» diventa una parola proibita.

Narrato in una terza persona misurata e neutra, il romanzo si affida al punto di vista di Marcos, impiegato in un mattatoio e così apprezzato da ricevere in omaggio una femmina di qualità Premium (l’ideale per un asado) che, contro ogni regola, chiamerà Jazmin, facendone la sua amante. Ed è attraverso questo protagonista sofferente e dubbioso (Marcos sospetta che mangiare carne umana sia in realtà un modo per far fronte alla sovrappopolazione e alla conseguente scarsità di risorse), che entriamo in una «normalità» simile alla nostra, familiare e straniante insieme, prima di precipitare verso un finale senza redenzione.

Alle prese con un tema che molti hanno trattato (dal mito in poi, nutrirsi di carne umana è un tabù con cui letteratura e arti visive si sono spesso misurate), Batzerrica evita truculenze gore, non arriva a conclusioni, non intende comporre una parabola, ma raccontare una storia che dia corpo alle sue personali inquietudini. Cadavere squisito è fatto di descrizioni oggettive e quasi asettiche, di un attento studio dei personaggi e degli ambienti, e di molte malinconie. Come tutte le storie ben raccontate, però, anche questa ci interroga: in primo luogo su ciò che ci rende umani, sulla capacità di riconoscere sempre e comunque gli altri come nostri simili, e, ovviamente, sul rapporto con le altre specie.

TRA I TEMI CHE ATTRAVERSANO la narrazione – fili sottilissimi, ma percettibili – ci sono inoltre allusioni al passato (allevamenti e macelli potrebbero rimandare ai campi di detenzione della dittatura, e Jazmin partorisce un bambino di cui Marcos e sua moglie si appropriano), il fanatismo religioso, rappresentato da una setta che chiede agli adepti di offrirsi in sacrificio, e soprattutto la presenza del corpo come merce e oggetto di controllo; il romanzo si offre così a letture e interpretazioni numerose quanto varie, che l’autrice, ha dichiarato in un’intervista, spera inducano a una riflessione sulle logiche di «un capitalismo brutale di cui tutti siamo figli e figlie». Viviamo già in una società «cannibale», sembra dirci Bazterrica, in cui si mangia o si viene metaforicamente mangiati, come lo sfrenato darwinismo sociale di Javier Milei ricorda ogni giorno agli argentini.