La Cina prova a rilanciarsi come possibile facilitatrice della pace in Ucraina. Ma il relitto di una nave americana della Seconda guerra mondiale nel Pacifico rischia di arenare il suo obiettivo di mostrarsi come unica grande potenza responsabile. Tra diplomazia e muscoli, Pechino cerca di puntellare la sua immagine globale.

TENTATIVO giunto in concomitanza della conferenza svizzera sull’Ucraina, a cui la Cina non ha partecipato. La linea è stata ribadita anche in questi giorni: impossibile pensare di poter arrivare alla pace senza coinvolgere entrambe le parti coinvolte nel conflitto. Nella prospettiva di Pechino, continuare a inviare armi a Kiev serve solo a far proseguire la guerra e «gettare benzina sul fuoco». E così, nella narrativa dei media di stato, la conferenza svizzera diventa quasi una continuazione del summit del G7, utile a perseguire una «divisione in blocchi» in ossequio a una «mentalità da guerra fredda» emanazione del «desiderio di egemonia» degli Usa. Ieri, il portavoce del ministero degli Esteri Lin Jian ha attaccato: «Il G7 non può parlare a nome della comunità internazionale. Rappresenta solo il 10% della popolazione mondiale e la quota nell’economia globale diminuisce ogni anno». Implicito riferimento all’allargamento dei Brics, a cui presto potrebbero aderire nuovi paesi tra cui Thailandia e Turchia. Interessante che, durante la conferenza svizzera, il vice rappresentante alle Nazioni unite, Geng Shuang, abbia invitato Russia e Ucraina a «incontrarsi a metà strada». Parole che, pronunciate poche ore dopo la “proposta di pace” di Vladimir Putin, suonano come un invito a Kiev e occidente di dare credito alle possibilità negoziali cinesi di rendere meno «irricevibili» le richieste del Cremlino. Xi Jinping pensa a una conferenza di pace riconosciuta da entrambe le parti. Un progetto che coltiva col Brasile e che potrebbe prendere corpo a cavallo del summit del G20, dove il presidente cinese sarà accolto da Lula, pochi giorni dopo le elezioni americane.

INTANTO, PERÒ, nel suo vicinato Xi mostra un volto meno accomodante. Ieri c’è stata una collisione tra una nave filippina e un’imbarcazione della guardia costiera cinese nei pressi delle Spratly, isole contese nel sempre più strategico mar Cinese meridionale. «La nave filippina ha ignorato numerosi avvertimenti ed è entrata in acque cinesi provocando una collisione», dice Pechino. «Dichiarazioni fuorvianti e ingannevoli», risponde Manila. Il cerchio rosso sulla mappa è sempre intorno all’atollo di Second Thomas.

LE SCINTILLE si accendono ormai da quasi un anno, con vari gradi di intensità, all’incirca ogni tre settimane. Quando, cioè, Manila manda missioni di rifornimento per il piccolo contingente di truppe della Sierra Madre, vecchia nave americana improvvisata mini stazione militare. Nei mesi scorsi sono stati azionati diverse volte i cannoni ad acqua cinesi, mentre Pechino accusa i filippini di aver puntato delle armi contro i suoi uomini. Tre settimane fa, l’esercito filippino ha denunciato il «sequestro» di generi alimentari e medicinali paracadutati sull’avamposto.

Il nuovo incidente avviene solo pochi giorni dopo l’entrata in vigore delle nuove norme che rafforzano i poteri della guardia costiera cinese. Ma, attenzione, perché rischia di non trattarsi di mere schermaglie regionali. A inizio giugno, il presidente filippino Ferdinand Marcos Jr ha chiarito per la prima volta che cosa farebbe scattare la richiesta agli Usa di azionare il trattato di mutua difesa: la morte «su azione volontaria» di un cittadino filippino.

WASHINGTON non ha confermato, ma non sono in pochi quelli che ritengono questo teatro quello potenzialmente più insidioso. Per la presenza di molteplici attori e per il possibile coinvolgimento diretto di entrambe le grandi potenze. La strada per una de escalation appare strettissima. I primi giorni di giugno, a Singapore, i funzionari della Difesa cinese rispondevano così: «Distensione? Se non cambia posizione, solo quando Marcos non sarà più presidente».